Con Madres paralelas, presentato come film d’apertura della mostra del cinema di Venezia, Pedro Almodóvar torna a puntare l’obiettivo su uno dei suoi temi preferiti, quello della maternità, creando dei ritratti femminili che vogliono unire passato e futuro e ribadire l’importanza della figura femminile come punto di congiuntura tra le due dimensioni. È un tentativo che non riesce completamente, con una giustapposizione un po’ forzata di due storylines che non si intrecciano veramente se non in modo artefatto.
La protagonista, Janis (la candidata all’Oscar Penélope Cruz) incontra l’antropologo forense Alvaro durante uno shooting fotografico, dopo il quale gli chiede di aiutarla ad ottenere l’apertura di una fossa comune fuori del villaggio in cui è cresciuta, per cercare il corpo del nonno, desaparecido durante la Guerra Civile spagnola, come tanti degli altri uomini del villaggio. Trai i due nasce una relazione, e mesi dopo Janis scopre di essere incinta.
Poco prima di entrare in travaglio Janis conosce la giovane Ana, anche lei incinta. Le due partoriscono contemporaneamente, e si instaura tra loro una certa confidenza. Ana, adolescente, vive adesso con la madre, un’attrice di teatro che però è appena stata scritturata per la parte che potrebbe svoltarle finalmente la carriera – la Donna Rosita Nubile di García Lorca – e decide quindi di anteporre la realizzazione personale alla figlia e partire in tournée. Ana e Janis si rincontrano mesi dopo in un bar, in cui Ana lavora come cameriera, e Janis le propone di prendere il posto della distratta au pair irlandese e trasferirsi a casa sua.
Ma, nel frattempo, è successo qualcosa di drastico per entrambe le madri: Janis ha scoperto di non essere la madre biologica della sua bambina, mentre la figlia di Ana è morta nella culla. Nonostante diversi elementi sembrino indicare quale sia la verità, Ana non sospetta nulla: ingenua, dolce come la sua apparenza fisica indurrebbe a pensare, il taglio ‘pixie cut’ con cui la ritroviamo le indurisce i lineamenti. La morte della figlia non l’ha distrutta, come non lo ha fatto lo stupro che ha subito, ma la perdita della bambina ha accentuato il suo desiderio di essere una donna adulta e indipendente; Sicuramente nel rapporto tra lei e Janis c’è una componente di maternità, l’essere di Janis per Ana una figura di riferimento materno, più adulta, e allo stesso tempo diversa dalla sua stessa madre, che non è mai stata davvero presente per lei per via della loro storia personale.
Non c’è mai, nel modo in cui Almodóvar si rapporta alla femminilità, qualcosa di forzato o artificioso: i suoi ritratti femminili sono sempre genuini, onesti, e lo stile peculiare che li accompagna non li rende macchiettistici ma contribuisce solo ad affermare ulteriormente lo stile autoriale del regista. Così tutto, nel film, sembra portare il suo nome, come uno stilista che abbia disegnato per filo e per segno ogni dettaglio della sua collezione: il rosso, in primis, sempre presente nella sua palette di colori; gli interni decorati in stile modernista, l’abbigliamento sgargiante e dai tagli geometrici (e una maglietta indossata da Janis con la scritta “we should all be feminists”) e poi i set fotografici, in particolare quello in cui Janis fotografa un gruppo di donne transgender per la copertina della rivista di moda della sua migliore amica Elena.
Un po’ più forzato sembra invece la deriva omosessuale nel rapporto tra Janis e Ana, che da un lato sembra rispondere più a un bisogno di affetto da parte di Ana che da una reale attrazione sessuale tra le due, e forse questo è davvero il caso, nelle intenzioni del regista, ma anche la scena di sesso non trasmette la stessa passione e sensualità che invece contraddistingue molto del cinema ‘almodovariano’.
Ancora una volta, però, le donne sono praticamente le uniche protagoniste, e Almodóvar ne restituisce dei ritratti che rendono giustizia e dignità ad ognuna di loro; l’unico ruolo maschile di una certa rilevanza è quello di Arturo, una figura però involontariamente comica nella sua marginalità e nel suo ruolo di uomo colto e affascinante, chiaramente subordinato a quello di Janis.
Così, la storyline principale, il terribile segreto che Janis nasconde ad Ana, diventa secondaria, un escamotage per raffigurare da vicino diversi personaggi femminili, più che concentrarsi su una trama che potrebbe svilupparsi in un thriller. E, a differenza di molti altri film del regista, non è nemmeno un film drammatico, perché il personaggio di Janis si redime prima che sia troppo tardi, confessando ad Ana la verità. E, dopo un breve momento di crisi, tutto è di nuovo in salita verso un finale luminoso e positivo per tutti i personaggi coinvolti.
Solo che la storyline dedicata alla memoria e alla storia, e alle sue sempre attuali implicazioni politiche, non si interseca mai realmente con quella principale, tranne nel momento di una conversazione – che probabilmente vuole essere significativa, ma che suona un po’ forzata – tra Janis e Ana, in cui la prima afferma con convinzione l’importanza di guardare anche al passato e non solo al futuro, anche per chi è giovane come Ana, e con la Guerra Civile non sente nessuna connessione. Solo alla fine, nell’ultima parte del film, Janis e Pedro partono alla volta del villaggio natale di lei, e ascoltano le memorie delle donne, che raccontano delle morti e delle sparizioni. Janis ora è di nuovo incinta di Pedro, e tenendo la mano a lui, da un lato, e ad Ana – che l’ha perdonata molto in fretta, apparentemente accettando con docilità la fine della loro relazione – dall’altro, assiste all’apertura della fossa, dopo che un corteo di donne si è avvicinato, sfilando, al luogo in cui i loro amati sono stati gettati senza nome e senza ricordo. Di nuovo le donne sono protagoniste, ma se c’è un intento di creare un parallelismo tra l’essere madre – il futuro – e il ricordo del passato, questo risulta un po’ forzato nella sua costruzione narrativa, come un tributo che non trova spazio nella trama.
Guardando Madres paralelas ho pensato ad un altro film, Nuestras madres di César Diaz, un film il cui protagonista è un antropologo guatemalteco che si imbarca nella missione di cercare la tomba del padre, scomparso durante la guerra civile. Anche in quel caso, il titolo combaciava con la presenza importante e simbolica della figura femminile e allo stesso tempo era una ricerca del padre perduto. Eppure, un film molto più grande, a livello di produzione ed esperienza, come quello di Almodóvar non riesce a trasmettere lo stesso afflato sincero a questa ricerca del proprio passato, che sembra un po’ forzata, quasi un messaggio che si cerca di infilare non a livello subliminale ma fin troppo rimarcato, senza che allo stesso tempo se ne riesca a veicolare l’urgenza.
Carico i commenti... con calma