Ci è voluto ben più di qualche bicchiere di vino per mettermi nelle condizioni adatte per recensire questo frisbee, quindi mi scuso in anticipo per eventuali typos, strafalcioni fantagrammaticali e glitch mentali assortiti; tutti errori umani che comunque non renderebbero l'idea dell'orrore disumano provato ascoltando l'ultimo abort-ahem-parto dei nostri hipster squinternati di Brooklyn.
*hic*
A onor del vero lo squinternato è uno solo, e risponde al nome d'arte di Hunter Hunt-Hendrix, mente (?) del gruppo, nonché autore del famigerato manifesto di TRANSCENDENTAL BLACK METAL, ovvero: come trascendere il black metal iperboreo attraverso l'affermazione, l'ipertrofia, il coraggio, il finito, e la tecnica del burst beat contrapposta al classico blast beat. Farina del suo bong, certo non mio. Eppure, per quanto la pretenziosità d'intenti rasenti il tragicomico, i risultati ottenuti con Renihilation (2009) e Aesthetica (2011) non erano tutti da cestinare brutalmente, e il concetto di black metal estatico e trionfale, se preso col dovuto riguardo per la scena americana di contorno, non pareva poi così malaccio come si pensava. Giuro!
*hic*
Ma ciancio alle bande, siamo a dicembre 2015 ed è ora di tirare le somme dell'annata: gli album più fiki, le sorprese più gradite, le delusioni, le zuppette riscaldate, il girone degli ignavi, il girone della merda (mangiala!)... e i Liturgy. Non paga di essere diventata il più grande meme dell'hy(p)steria metallica, noncurante delle derisioni e delle minacce, ignara di aver generato mostri, la tetrade trascendentale decide a questo punto del percorso di superarsi, di trascendere la trascendentaltità, di pinotizzare tutti con un colpo basso che nessuno poteva aspettarsi: The Ark Work.
*beve un altro bicchiere di vino*
The Akrw Ork, dicevo. È come se qualcuno avesse rinchiuso il cuginetto tredicenne nerd in una stanza (buia e senza finestre, ça va sans dire) con un impianto stereo che pompa a manetta il disco di una qualsiasi one man band black metal da cameretta (Animae Capronii, per citare un orgoglio nostrano), un sequencer MIDI impazzito, e un megaschermo che proietta a caso immagini di divinità norrene e vecchi giochi RPG. Naturalmente, dopo una clausura di qualche giorno, il suddetto cugino viene sbattuto in uno studio registrazione casereccio, alle prese coi propri fantasmi e dubbi esistenziali, nonché con una strumentazione all'altezza del suo stato confusionale.
Faccio partire l'intro di Fanfare: trombi mascherati da trombe MIDI mi martellano l'amigdala e nel giro di trenta secondi viene voglia di spegnere tutto e fare bungee jumping dal balcone, senza elastico; ma resisto ancora due minuti!, con l'aiuto di un altro bicchiere di vino of course. Negli ultimi secondi fa capolino un piccolo glitch, tipo disco rotto, foriero di sventure aurali. Ahia, iniziamo bene. Il primo brano vero e proprio, Follow, non sembra partire male: campanellini, tremolo picking, e un bizzarro rumorismo di fondo; spiazza (per non dire che fa pena) un po' la produzione, che non dà il giusto tiro agli strumenti, poi subentrano i cori da stadio (??) e la voce in clean di HHH. Avrei preferito continuare a sentire gli strilli isterici degli album precedenti, à la Hello Kitty Suicide Club, piuttosto che questo mugolio nasale e molesto. Ma io resisto e passo alla successiva Kel Valhaal.
*hic*
Tornano alla carica i trombi, stavolta supportati da una sezione ritmica solenne, un po' improvvisata e un po' marziale. Pooot, pot pot pot popopopooot, pot pot pot, pot popooot, pot pot, pooot, popopopopoooot, pot pot pot popop-p-p-p-p-poooot... poi una sorta di cornamusa, e i cori della curva al derby di San Siro: YEEEEEEAAAHH!!!, ma che avranno da esultare? Ad ogni modo il brano procede così per qualche minuto, pot pot popopopooot, si aggiunge tripla-H a farneticare le sue cose trascendentali iperboreali e sono tentato di percuotermi le gonadi con la racchetta fulmina-zanzare. Ma resisto e vado avanti, sorseggiando un altro bicchiere di vino. Follow II mi risolleva un po' il morale, centrando il bersaglio con un crescendo emozionante dal retrogusto orchestrale: prima un organetto, poi una chitarra sempre più stridente, uno tappeto elettronico ben piazzato, infine tutto esplode con l'ausilio degli archi (ovviamente sintetizzati); certo HHH resta la nota dolente di tutto l'album, così come i suoni impastati alla meno peggio, ma si cerca di salvare il salvabile, no?
Ogni ombra di entusiasmo viene comunque scacciata dalla successiva Quetzalcoatl, i cui primi tre secondi fanno già terrore. Beats elettronici scrausissimi tunz-tunz-tunz fanno subito strada agli intrecci nevrotici di chitarre in tremolo, HHH come sempre aggraziato come il rantolo di un paperotto, e nuovamente un crescendo estatico con tanto di archi, stavolta a mio avviso un tantino posticcio e prevedibile. Father Vorizen stupisce invece per la pochezza di idee, macinando gli stessi riff monolitici e HHH che sembra annoiato dalla sua stessa musica. C'è spazio anche per Haelegen, un intermezzo medievale tutto squisitamente MIDI, molto vintage, molto nerd, molto Burzum periodo pensione, ops, prigione.
Reign Array: undici minuti di Liturgy, undici minuti di grandeur, euforia, scalata gloriosa verso il cielo, io però al secondo minuto e mezzo non ce la fo più a star dietro a 'sto delirio e butto giù un altro bicchiere. Olè. Ma il peggio deve ancora venire: Vitriol. Sostanzialmente un rap sbilenco che ha come base ritmica gli stessi vocalizzi agonizzanti di HHH, eeeehh!, yeeeeh!, aaaoooh!, roba per outcast senza alcuna speranza di reinserimento sociale. Finito il vino, passo agli shottini di pálinka ungherese, ché ormai ogni speranza è persa. E se quanto sentito finora è paragonabile letteralmente a una grossa grassa cagata, Total War, l'ultima tappa di questo tour de force, si sbrodola addosso come una scarica di dissenteria: melodia, ritmo, struttura, tutto è andato a peripatetiche, tutto è perduto, nulla ha più senso. St. Anger, Illud Divinum Insanus e Lulu hanno trovato finalmente un degno successore.
E io inizio a non sentirmi tanto bene...
*hic*
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