[ Continente K. - Bout de la Terre, Selezione Europa ]
"L'ombra sul lato della strada mi ricorda sempre di te"
I. Pleut à Kőszeg: exercises de nihilisme.
Davanti alla sua finestra c'è un bosco e sembra che il cielo si prepari alla pioggia. Allora il cielo si copre e comincia a cadere l'acqua. Piove, un pioggia sottile e fredda cade sulle case, sugli alberi, sulle tombe.
La pioggia cade sul loro viso scomposto. Loro lo guardano e il freddo diventa più intenso, i suoi muri bianchi non lo proteggono più. Le nuvole sono grigie, una nebbia lieve e perlacea fluttua sopra la casa, sopra la via. Passano le ore, l'orologio della chiesa suona le nove. Piove ancora. Alla radio se ne sente parlare ogni giorno, c'è la guerra e presto morirà tanta gente. Tobias Horvath è dovuto restare sei settimane in ospedale, era contento di restarci perché non voleva tornare in fabbrica. Lì stava bene, si occupavano di lui, poteva dormire. Per mangiare poteva scegliere tra diversi menù. Poteva persino fumare in un piccolo salone.
È così che è morto, ma naturalmente non è morto.
Horvath aveva una sua infanzia pronta per ogni occasione. Era stato un orfano di guerra. Era stato allevato in un orfanotrofio. All'età di dodici anni era scappato da quell'istituto, aveva attraversato la frontiera.
- È tutto. - È tutto? - Sì, è tutto.
Tobias Horvath era nato in un villaggio senza nome, in una nazione senza importanza. Quando i contadini ammazzavano un maiale riservavano alla madre Esther le parti peggiori. Per loro tutto era buono. I contadini andavano ogni giorno a fottersi la madre. Abitavano vicino al cimitero, ultima strada del villaggio, ultima casa.
A volte il cielo era bello, ma Tobias amava il vento, la pioggia, le nuvole. Amava la morte.
Un vuoto si era installato in lui. Come la fabbrica moderna dove ora lavora da dieci anni.
E dopo dieci anni per loro lui è ancora uno straniero alla scacchiera. Solo.
Degli amici umiliati nessuno tornerà. Aveva un amico, sette anni prima si era ucciso.
Il corpo di Vera, già in decomposizione, era steso sul letto. La loro prima morta. Robert s'era aperto le vene nella vasca da bagno. Albert s'era impiccato. Magda aveva pelato le patate e le carote, poi s'era seduta sul pavimento, aveva aperto il gas e messo la testa nel forno. La quarta volta che al bistrot si erano raccolti i soldi, al cameriere che gli aveva detto: Voi stranieri fate continuamente collette per le corone di fiori, andate continuamente a funerali, Tobias Horvath gli aveva risposto: Ognuno si diverte come può.
E Tobias la sera scrive. Pensa solo a tornare a casa il prima possibile per mettersi a scrivere un funerale socialista, senza prete. Un diario.
Yolande l'aveva incontrata mentre comprava delle calze nere, grigie e bianche da tennis. Tobias, però, non giocava a tennis. Yolande aveva riso stupidamente, ma la sua stupidità non lo riguardava, solo il suo corpo lo riguardava, e ci sono milioni di Yolande al mondo, belle e bionde, più o meno stupide, se ne sceglie una e si fa con lei. Ma le Yolande non colmano la solitudine. Tobias le aveva sorvegliato l'abbronzatura mentre Vera stava uccidendosi. La madre continuava a scrivere all'indirizzo di Vera e le lettere continuavano a tornarle indietro con sopra il timbro «deceduta». La madre di Vera continuava a chiedersi cosa volesse dire in quella lingua sconosciuta. Intanto tale Jean continua ad andare a casa di Tobias quasi tutte le sere, gl'impedisce di scrivere, gl'impedisce di dormire. Quando finalmente se ne va, Tobias si mette a scrivere. Raramente un libro, perché continua a bruciare tutto quello che scrive. L'avvenire è solo campi morti e fangosi. Non c'è che il presente.
Una volta nevica. Un'altra volta piove, e non si può scrivere della propria morte.
II. Colophon - Eveline: le grand gel de Neuchâtel.
Ágota Kristóf ha scritto veramente poco. Quattro romanzi, nove testi teatrali, di cui cinque diventati radiodrammi, qualche poesia e qualche racconto breve. Un altro romanzo che aveva in mente e che è rimasto irrealizzato aveva come titolo di lavorazione Aglaé dans les champs. Scrittrice dalle forme solide, nei contesti della sua letteratura i personaggi ritornano, si scambiano nomi, umori, caratteri, identità, si confondono, restano sullo sfondo. Etica schiva, ostica e talvolta apertamente ostile, che mostra la negatività della vita così com'è, così come si para davanti, anche in questa ultima fatica porta in rilievo certe caratteristiche esclusive della sua scrittura: temperamento viraginoso, cambi di tempi e di prospettiva, guerra e infanzie condizionate, l'assenza di riferimenti geografici chiari in un tempo definito, mistero, menzogne, violenza, passaggi di poesia rigida e gelata, apatia, sogni assillanti, incubi ricorrenti, sessualità raramente liberatorie, doppie identità, disperazione, morte, depressione, grigio eterno, lune offuscate e fraseggi da biblioteca notturna.
Hier (Éditions du Seuil - Parigi, 1995) è un romanzo breve di poco più di novanta pagine, si legge in tre ore scarse. Ieri è un concetto, un luogo, ovviamente un tempo. Dramma dell'esilio, bête noire dell'autrice. Un finale punitivo per un romanzo umano. Profondità, emotività, eternità, potenza fermentano e si rivelano con i giorni. Hier è severo, nudo, intellettualmente cattivo, cerebrale, soliloquio interiore antipsicologico.
Tobias/Sandor è una creatura che viene dal nulla, un omicida-suicida incapace. La sua donna, la sua vita, si chiama Line, ma non l'ha mai vista. Caroline è una creatura che appartiene al niente della sua provenienza borghese, classista e in fondo ugualmente stupida, Carole è in ultima analisi una prigioniera della sua posizione privilegiata, Line è solo un'idea. L'ultimo cliente, e nelle sue mani tese il sole. Verranno giorni cattivi e Kristóf li farà rincontrare in una ricostruzione particolare di ricordi. Quanto alla vita di Tobias/Sandor si può riassumere in poche parole: Line è arrivata e poi è ripartita. - Mi fai paura, Tobias. - Anche tu mi fai paura, Line.
Solitudine ungherese. Il finale di Ágota Kristóf è una danza di routine e alienazione, di lontananza e sadismo. Un appartamento dentro al quale non è il ritiro a dare forza, ma il silenzio. Custodie per gli occhiali, macchine da scrivere, nastri d'inchiostro, tutte le traduzioni mondiali che sono state realizzate per la Trilogia della città di K.
III. Travailleur muet: les solitudes grises.
Non è sopportabile tutta questa tristezza. Sandor Lester non ne sapeva niente, ma pensava che la vita non poteva essere se non quello che era, vale a dire niente. La sera scrive. Altri si sono adattati, hanno sposato donne del posto e la sera restano a casa, chiudono le loro porte a doppia mandata e attendono pazientemente che la vita passi. Così ora Sandor resta nella sua stanza, seduto su una sedia e non fa niente. Questo non gli interessa più. È lì, seduto su una sedia a casa sua, e questo è tutto. Da ore, o da giorni.
Non trova alcuna ragione per alzarsi o per fare una cosa qualsiasi. Nessuno entra, nessuno esce. Passeggia come tutti, ma non c'è niente nelle strade le mattine di un giorno di lavoro, soltanto gente, negozi, basta.
Non aveva nessuno, quindi non importava dove fosse, i tram correvano sulle rotaie.
Quando è rientrato a casa ha acceso le luci di tutte le stanze e si è piazzato davanti allo specchio. Si è riguardato fino a quando il suo viso è diventato sfocato e irriconoscibile. Per ore è andato su e giù nella sua camera. I libri erano poggiati senza vita sul tavolo e sui ripiani, il letto era freddo, troppo pulito, non era il caso di mettersi a dormire. L'alba si avvicinava e le finestre della casa di fronte erano tutte nere.
Pensava che non aveva mai avuto un albero di Natale, e adesso era stanco.
Ieri Sandor ha vissuto un istante di felicità inattesa e immotivata. È venuta verso di lui attraverso la notte, il silenzio, la pioggia e la nebbia. Sorrideva, fluttuava, gli danzava davanti. Era la felicità d'un tempo remoto, quando il bambino e lui erano un tutt'uno. Lui era lui, aveva solo sei anni e la sera restava nel giardino a sognare guardando la luna. Che ne avrà fatto?
Ieri ha dormito a lungo, quando si è svegliato era già notte. Ha sognato che era morto. Vedeva la sua tomba. Prima del sorgere del sole avrebbe voluto parlare di tutto, ma adesso è stanco, adesso non scrive più.
Sandor Lester oggi ricomincia la corsa idiota. Si alza alle cinque di mattina, si lava, si fa la barba, si prepara un caffè e va, corre fino alla piazza principale, sale sul bus, chiude gli occhi, e tutto l'orrore della sua vita presente gli salta al collo. La fabbrica, dove lavora da dieci anni. Una fabbrica di orologi, macchinari e un pedale da premere. La fabbrica di orologi è un edificio immenso che domina una vallata. La fabbrica produce pezzi di ricambio e pezzi semilavorati per altri stabilimenti. Nessuno degli operai potrebbe assemblare, da solo, un orologio completo. Faccia chiaro o scuro, nell'immensa officina i neon sono costantemente accesi. Dagli altoparlanti si diffonde una musica dolce. La direzione ritiene che con la musica gli operai lavorino meglio.
Nel reparto ognuno è solo col proprio macchinario. C'è un operaio come gli altri che vende tranquillanti che il farmacista prepara per la classe lavoratrice. La giornata passa più veloce, ci si sente un po' meno infelici.
La sera, uscendo dalla fabbrica, si ha appena il tempo di fare la spesa, mangiare, e bisogna andare a letto molto presto per riuscire ad alzarsi la mattina dopo. È da quella velocità e da quel ritmo che dipende il salario, la vita e la condizione operaia. Cucinare, cuocere del lardo e delle uova. No, niente patate. No, neanche il pane. Lavoro monotono, paga miserabile, solitudine. Attorno agli operai le macchine suonano l'angelus. La tua non era solo una fabbrica di orologi, Sandor, era anche una fabbrica di cadaveri, e tu eri soltanto un altro numero sbagliato, e l'unica cosa che può fare paura, che può fare veramente male, è la vita, e quella la conosci già.
Così il tempo scorrerà via, sarai a casa tua, solo, vecchio e felice, e sotto le tue palpebre scorreranno le immagini di quel brutto sogno che fu la tua vita. Così si edificano gli anni, così si edifica la morte.
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