Un basso pulsante in primo piano, sezione ritmica precisa e secca, di estrazione black, due chitarre ruvide e lievi, e poi su tutto, la spledida voce roca di Leslie Woods. Quest* erano the Au Pairs, bleach funk a Birmingham, una band coeva, come stile e modo di sentire di Gang of Four, Delta V e Ludus, ma soprattutto, una band gettata nel dimenticatoio senza un perchè. Se, a grosse linee, la musica di questo "Playing with a different sex" è molto vicina a quella delle altre bands inglesi, bisogna dire che però nessuno riesce a raggiungere la grazia e la levità di questo album, che sembra del tutto spurgato dal rumore e da ogni sovrastruttura, ma invece corre velocissimo, freschissimo, e davvero godibile.

In questo album i pezzi sembrano incastarsi alla perfezione, i due uomini della band (Peter Hammond alla batteria e Paul Foad chitarra e un azzeccatissimo controcanto stidulo e un pò lamentoso) e le due donne (la dotatissima Jayne Munro al basso e Leslie Woods chitarra e voce), il ritmo e la media mantengono un precario, ma tenace legame, i testi impegnati e le ammiccanti variazioni dance. La dimensione politica, come anche nei Gang of Four, è una parte essenziale del successo della band, ma i tesi sono piu' pervasi da ironia, o piu' spesso da sarcasmo, che fa sorridere, e pensare, e tutto sommato, non risultano neanche troppo datati. Si parte con "We're so cool", una sbrodolata di funk alla candeggina, veloce e piccante. Prosegue con "Love song", un geniale pezzo lento, ma sempre ritmato sui vuoti clichè del romanticismo che le donne si aspettano dagli uomini ("A touch of glance/a slow dance/it's so-classified romace/purpose, lust and charme/dance to an old refrain/I love you /I love you/I love you"), segue la lievissima e raffinata "The set up" per poi esplodere con "Repetition", uno dei pezzi piu' groovy dell'album. Un pezzo che colpisce molto è la marziale "Armagh", una canzone sulle prigioni femminili nordirlandesi, che inizia con una durissima requisitoria ("we don't torture, we're civilizated, we avoid any conversation... we don't torture... we don't torture?") e "It's obvious", una bellissima canzone dance sexy al punto giusto e a tratti irresistibile ("we're equal... but different").

Questo disco non sarebbe lo stesso senza non solo la voce altera di Leslie Woods, ma senza la sua essenza come artista, come donna militante femminista e lesbica; Leslie Woods, con quel suo fascino torbido e ambiguo, sta a questo disco come una scia di profumo lasciato da una bella donna.

Carico i commenti...  con calma