Pare che uno dei volti della Dea sia quello della Morrigan, della guerriera portatrice di morte, la quale, a sua volta, si ammanta di un fascino oscuro e terribile. Proprio alla Morrigan ho pensato dando un'occhiata alla copertina del nuovo album di Melissa auf der Maur, incuriosito dalle tinte scure che velano la cantante, dalla sua espressione rapita e raccolta, quasi sciamanica, mentre il vento le scarmiglia i capelli.

Una copertina che non tradisce le aspettative, poiché l'album si presenta come il progressivo sprofondare in un erotismo buio e divorante, a cui Melissa si abbandona compiacente. Il tema principale che riverbera in tutte le canzoni pare essere non tanto quello inflazionato dell'amore, ma più propriamente del desiderio, vissuto come fonte di energia ma anche come minaccia di dissoluzione. Un desiderio che si riveste delle suggestioni dark a cui Melissa ci ha già abituati nel suo precedente album. Suggestioni quasi gotiche, sospese fra il buio di un bosco europeo e le esalazioni tetre di un cimitero di campagna, della provincia americana alla Stephen King o della lapidi malinconiche di Spoon River. 

Si tratta di sfumature cromatiche che Melissa delinea con l'uso pervasivo del basso, il quale conferisce alle canzoni un'atmosfera a tratti nebulosa, a volte più corposa, ma sempre fisica e quasi tattile. Una percezione fisica della musica che si sprigiona sin dalla traccia iniziale "The Hunt", brano quasi interamente strumentale, sorretto dal pulsare di un cuore che comunica una tensione (erotica) crescente e dilaniante, che culmina con l'aprirsi della successiva "Out of Our Minds". Il singolo di lancio si schiude con un grido ancestrale, sospeso fra dolore e piacere, e con percussioni pesanti come schianti. Un viaggio interiore, dall'incedere prima ritmico e martellante, poi più fluido e conturbante. 

Melissa parla di se stessa, del fuoco che la consuma da dentro. Una forza di cui non aver paura, ma da ascoltare, e che coincide con una nuova consapevolezza femminile, come sottolinea la più cadenzata e allucinogena "Isis Speaks". Segue un altro brano strumentale, "Lead Horse", che dipinge un tetro paesaggio da far-west, un villaggio di frontiera abbandonato alle ombre del crepuscolo. Appare fra l'altro curiosa la presenza di più di un brano strumentale, dato che nel precedente album non ve n'era alcuno. Con questa sua nuova opera infatti la cantante non va sempre alla ricerca di melodie ben delineate su cui imbastire le canzoni. Preferisce invece elaborare soluzioni musicali meno orecchiabili, ma non per questo dispersive. Si prende i suoi tempi, conferendo all'album un ritmo ben calibrato, che accosta brani più ritmati e coinvolgenti come "Meet Me On The Darkside" a momenti più rilassati e introspettivi come "Follow The Map", "22 Below" o la sognante "This Would Be Paradise". L'introspezione è comunque  la colonna portante dell'opera, in quanto Melissa non si maschera mai, anzi, pone sempre se stessa al centro delle canzoni, senza finzioni e filtri, come nella struggente "Father's Grave" o nella conclusiva "1000 Years".

In conclusione, ci troviamo di fronte a una grande prova di bravura da parte di Melissa. Pur conservando le atmosfere dark del primo album, ha saputo sviluppare meglio la questione dei già ottimi arrangiamenti, rendendoli più variegati per sfruttare uno spettro espressivo più vasto e meno monotono. "Out of Our Minds" è in ultima analisi un'opera più matura e personale, il punto di arrivo di un lavoro pluriennale. Un'opera straordinariamente precisa e coerente, portata alla luce con mano ferma ma soprattutto con passione, con voglia di fare, di esprimere e di incuriosire. 

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