Perché mai le immagini e le sensazioni che vediamo e proviamo da svegli le chiamiamo “realtà”? Perché mai quelle che vediamo e proviamo da dormienti le chiamiamo “sogno”?
Che sia solo una questione di tempo?
Se dormissimo molto di più di quanto non stessimo svegli, sapremmo dire con altrettanta sicurezza quale caos sia “realtà” e quale “sogno”? Che percezioni ha della vita una persona che rimane in coma per giorni, mesi, anni?
E la coscienza?
Ma lo siamo davvero? Coscienti intendo. E poi, ce ne facciamo davvero qualcosa della coscienza? Credo che rimarremmo tutti stupefatti se potessimo constatare quanta poca parte abbia nelle decisioni che prendiamo nella nostra vita questo bisturi smussato, questo stallone azzoppato, questo usignolo sfiatato che chiamiamo “coscienza”.
Nuotiamo per lo più a casaccio in un mare di distorsioni, di pezzi mancanti e di approssimazioni; soprattutto ci affidiamo ai nostri personali “atti di fede”, verso qualcosa o qualcuno che c’era, che c’è o che forse ci sarà.
Insomma, “realtà” e “sogno” potrebbero essere due identici guazzabugli percepiti in maniera diversa. Nulla di più e nulla di meno.
In Francia, nella seconda metà dell’800 si era affermata la scuola Naturalista: dottrina che pretendeva di illustrare la realtà e gli esseri umani come fossero algoritmi o congegni spiegabili unicamente attraverso mere cause ereditarie e ambientali. Emile Zola, autore dotato di uno stile vigoroso e persuasivo (ma anche di stolidità di vedute e di immaginazione limitata) , era il profeta di questa scuola e non ammetteva, per sé e per i suoi discepoli, nessuna variazione al tema: i personaggi dovevano comportarsi in modo congruo all’ambiente dove erano cresciuti ed avere una personalità conforme a quella dei membri della famiglia di provenienza. Non erano ammessi “casi eccezionali” o “pecore nere”.
A dire il vero, credo che non sia mai esistita una scuola letteraria che abbia saputo capire di meno la vita e gli esseri umani del Naturalismo, e, tra i primi che si accorsero di questa asfitticità di prospettive, fu Auguste de Villiers de L’Isle-Adam.
Proveniente da una famiglia di nobilissimo lignaggio ed artefice di una vita errabonda e irregolare , questo dimenticato quanto grande autore era dotato di uno stile dei più sontuosi e vellutati e di un’immaginazione iperbolica marchiata a fuoco da una tetra ironia.
Di Baudelaire (sebbene senza la sua coscienza critica) aveva la capacità di sollevare il velo del quotidiano per trovare segrete connessioni con altri mondi, di Poe la cupezza di paesaggi e situazioni, di Corbière il sarcasmo iconoclasta verso gli “idoli” del suo tempo, addirittura di Flaubert (senza però la sua perfezione formale e la sua eleganza semantica) il mestiere di adattare lo stile a seconda della storia narrata.
“Racconti Crudeli”, scritto nel 1883, è, a mio parere, la sua opera più rappresentativa. E’ proprio qui, in questi 28 brevi racconti, che possiamo avere un’idea precisa della sua personalità multiforme, della sua destrezza nel cambiare registro. Si passa da divertentissime “vaudevilles” in cui irride l’ingenua fede nella scienza della società del tempo a veri e propri racconti del terrore ambientati in una Parigi dipinta con tratti gotici; da spunti venati da una dolce malinconia a sprezzanti attacchi verso l’ottusità borghese.
Ma cosa è trattato crudelmente? Proprio la realtà: l’ordine precostituito è fatto a pezzi, i canoni letterari sono letteralmente sottosopra, la vita sembra fermarsi in certi attimi privilegiati in cui le persone, le cose, gli avvenimenti acquistano una simbologia eterna e paradigmatica.
Ricorrenti sono le parole desuete ed esotiche che paiono cesellare i racconti in pregiati mobili di legno antico e non è un caso se, un anno più tardi, il raffinatissimo Des Esseintes (protagonista di “A Ritroso” di Joris-Karl Huysmans, vera e propria “Bibbia” Decadentista) indica Villiers de L’Isle-Adam come suo autore prediletto.
Il nostro non conobbe mai troppo successo in vita, forse perché spaventò troppo il pubblico o forse il pubblico stesso non lo prese troppo sul serio, chi lo sa.
Lui è andato avanti per la sua strada e mi piace ricordarlo come un precursore ed un visionario, un santo e un mago che ad ogni piè sospinto intrecciava e fondeva quella che noi chiamiamo “realtà” e quello che noi chiamiamo “sogno”.
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