Prima e dopo "Amber", gli Autechre hanno o avrebbero fatto probabilmente di meglio.
Eppure, per motivi strettamente affettivi o anche per l'abisso che mi lascia continuamente intravedere un pezzo come "Foil", questo è il loro disco in cui riesco a riconoscermi di più, e sin dal primo pezzo, (ancora "Foil"), sin da quel suono continuo, a suo modo magmatico che si stende con minime variazioni come un tappeto su cui vanno a poggiarsi i restanti suoni (non molti a dire il vero) che, via via, contribuiscono a creare il paesaggio alieno che prova a descrivere questo disco.
Alieno, ma non troppo, soprattutto se rapportato a quanto successivamente avrebbero fatto (suoni via via più metallici e destrutturati di sempre più difficile fruizione e/o assimilazione). Qui il paesaggio, invece, conserva ancora tracce umane, tentativo di far convivere queste due anime forse anche sin dall'immagine di copertura, foto di un qualche luogo nella regione turca della Cappadocia, terra di per sé, a suo modo, aliena e fatata, ma comunque terrena.
Non hanno/non avrebbero più fatto copertine con immagini terrene gli Autechre, persi (ancora e sempre forse) nel loro viaggio verso chissà dove, lo stesso viaggio che io riuscii a intravedere quando, passando per i vicoli di Napoli accanto a un negozio di dischi, sentii per la prima volta il cupo e continuo suono di "Foil".
Entrare e acquistare il disco fu un attimo, senza neppure sapere chi fossero gli Autechre: era il primo cd di elettronica che acquistavo, ne avrei presi degli altri, mi sarei innamorato di altri passaggi di Amber ("Montreal", "Silverside", "Yulquen", "Nil", le gocce dalle stalattiti nella caverna di "Further", la cupa minaccia di "Teartear", avrei scoperto dopo anni, in un ascolto distratto, ma evidentemente non troppo, le bellissime e minime variazioni/cesellature di "Piezo") ma "Foil" mi sarebbe sempre rimasta nel cuore, così simile a me, tanto da diventare il mio nick da qualche parte nell'universo di internet, ma questa è un'altra storia…
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