1997, casa Warp: Rob Brown e Sean Booth danno alle stampe il loro capolavoro assoluto, un concentrato di creatività e sperimentazione come mai si era sentito all'interno dell'allora bollente fenomeno IDM. Gli echi melodici degli esordi sposano la meccanicita industriale della Tri Repetae era in un'opera dissonante e cervellotica a dir poco avanti per la sua epoca, in quel determinato contesto. Un contesto, il 1997, che vede la scena elettronica mondiale in pienissimo fermento tra il boom della drum'n'bass (che ha ormai del tutto sostituito la jungle e da alle stampe quei dischi adesso giunti allo status di masterpiece) il trip hop (che irrompe nel mainstream pur senza particolari perdite qualitative), il ritorno prepotente dell'electro (che tra Drexciya, Aux 88 e compagnia vive un periodo se possibile ancora più glorioso del primo), il boom commerciale del trascurabilissimo big beat di Prodigy e Fatboy Slim (da citare soltanto per dover di cronaca), l'avvento dell'ibrido techno/house/electro targato Daft Punk, i primi vagiti di 'glitch-laptop-tronica' post Oval (12k e l'ormai leggendaria Raster Noton hanno da poco aperto i battenti), la dub techno della Chain Reaction, le nuove forme di deep house, Detroit che mantiene sempre più proprio lo scettro di epicentro della techno, ma che al contempo vede l'affacciarsi delle tante nuove leve europee, e via dicendo non si finirebbe più a citare quanto di buono sia uscito in quell'annata, tra le più importanti dei tempi più recenti. E' In tutto questo scenario che bisogna prima di tutto contestualizzare l'opera, è difatti pazzesco pensare come "Chiastic Slide" - che suona molto simile ad uno standard di astrattismo experimental-elettronico che comparirà soltanto più in la, intorno al 2000 - sia uscito in quello stesso anno, metabolizzando e archiviando sin da subito la direzione meccanico/melodica intrapresa col precedente "Tri Repetae" e durata appena due anni, direzione su cui tralaltro tanti produttori stavano ampiamente mangiando.
Per capire quello che il duo inglese sta creando parallelamente basta ascoltare la prima traccia, "Cipater", avanguardia assoluta: rumoristica che richiama all'industrial più radicale e un'insolito andamento hip hop accompagnano il viaggioso motivo melodico, definito soprattutto da macchine digitali, in un epoca dove nell'IDM, ma in gran parte dell'elettronica in generale - forme glitch-artistiche permettendo -, stava trionfando l'analogia purissima (il successo dei Boards of Canada, Juno Reactor, il grande periodo di Carl Craig, Jeff Mills, Moodymann o l'electro visionaria in quel di Detroit rappresentano dei calzanti esempi). Ritmicamente si hanno le prime innovazioni degli Autechre complessi e indecifrabili cosi come li conosciamo oggigiorno, una componente ritmica che è tripudio di innovazione e occhiolini al futuro: una massa sonora composta da piccole particelle digitali, elaborazioni timbriche che vengono manipolate in un flusso/magma perpetuo, quadrate e poi terzinate, mutevoli ed inaspettate, a seguire una tradizione collage-istica più tipica della musique concrète, e che fanno scorrere i nove minuti della piece con sconvolgente naturalezza, sfuggendo spesso e volentieri da quello che è il concetto di 'loop'.
Programmazione pioneristica che apparirà anche sulla seguente "Rettic Ac", rapido episodio che si pone come continuo di "Cipater": ovvero come appena due minuti possano risultare seminali per tutta quella elettronica ritmico-sperimentale del decennio successivo (il tecnicissimo astrattismo di cui sopra), gli intricati e ferrosi puzzle di rumoristica che faranno la fortuna degli attuali maestri del filone (Otto Von Schirach, Richard Devine, Detach'i e le produzioni Schematic per citare i più indecifrabili), che sì, raggiungeranno un livello talmente elevato e complesso da arrivare persino ad essere richiesti per programmazione sound da importanti case di virtual instruments (come Native Instruments o Fixed Noise) ma che in un certo senso - pur parlando di talenti giganteschi - sanno in linea di massima di giàsentito.
Il giàsentito parte da Chiastic Slide.
Difatti gli Autechre, a differenza di terzi e ben più celebrati utilizzatori, o meglio banali volgarizzatori, del mezzo elettronico, rappresentano uno dei più recenti e limpidi esempi di come dovrebbe essere prodotta la musica elettronica, viste le possibilità infinite del mezzo elettronico. E' forse il caso di citare personalità tra gli altri come Pierre Schaeffer, Tod Dockstader, Nic Pascal, Ruth White, Stockhausen, Parmegiani e Pierre Henry, gente che già dall'avvento o conformazione di quest'ultimi si è messa a sperimentare ed esplorare tale mezzo, o magari una postilla per i maestri di nastri e rumoristica dell'industrial più sotterranea e sperimentale di ottantiana memoria (Le Syndicat, Étant Donnés, Doxa Sinistra, Zoviet France, Whitehouse, Cranioclast..) ; con "Rettic Ac" e certe intuizioni secondarie rintracciabili sul capolavoro "Tewe" i due, sonstanzialmente non fanno che quello che quest'ultimi facevano a loro tempo, ma in una visione musico-sociale moderna, una visione non ancora del tutto esplorata che si aggrappa al 'digitale' più che alla meccanica o all'analogico. Visione che come il manipolo di geni di cui sopra si libera da vincoli armonici, rifiuta la quantizzazione cosi come il concetto stesso di canzone o notazione; l'eccellente interazione, tra ogni singolo suono (la quale ha a sua volta una propria vita in evoluzione - dal synth fino all'ultimo dei piattini -) ricerca territori nuovi, spreme il mezzo, guarda avanti. Brown e Booth stanno esplorando, sperimentando, stanno creando roba che persino oggi, 7 Febbraio 2011, riesce a suonare futuristica, originale, avanti. In breve, se gli Autechre possono dunque essere paragonati ai grandi maestri della sperimentazione elettronica, concreta o industriale o altro che sia, chi ancora limitato dai vincoli della forma canzone pop, valida o meno che sia la sua proposta, lo possiamo accostare ad un banale Jarre, indubbio talento se preso unicamente nelle vesti di compositore, ma nei fatti un fenomeno da baraccone, una macchina da soldi, un riciclatore, un volgarizzatore con la V maiuscola, più o meno l'equivalente dell'imbracciare una chitarra per limitarsi a percuoterla sulla cassa armonica, uno che oltre alla povertà della sua proposta non ha inventato nulla, visto che, ad esempio, un meno pompato e piacione Roger Roger ha avuto le medesime intuizioni anni prima, cosiccome chi si cimentava, nei tardi sessanta, nell'uso in contesti POPolari del fenomeno Moog.
Lungi da me sfruttare queste righe per sputtanare l'operato di Jarre (che comunque non fa mai male essendo esso tra i più sopravvalutati, nonchè prova concreta della potenza del marketing oculato, che la storia ricordi), ma si tratta di un discorso meno fuori luogo di quanto si possa pensare: è qui che risiede la versatilità del progetto inglese prima che abbandonasse completamente - e con risultati incredibili - ogni parvenza di forma canzone. Gli Autechre riescono infatti a fare propria anche questa fetta di elettronica che sposa spudoratamente la prevedibilità, l'orecchiabilità e l'ingenuità del pop formato canzonetta, pur non scendendo a compromessi di accessibilità e commercialità e limitazione artistico-formale che sono propri del francese come di tante altre cose come se ne sono viste purtroppo troppe nel corso degli anni. Sull'incredibile "Cichli" infatti, si ci imbatte in un disturbante beat in 5/4, ma dove per una volta i due si lasciano andare ad un raro motivetto giocoso e allegro, carico di bizzarria stile Mouse on Mars se vogliamo, ma che poi, con l'avvento degli archi sintetizzati, del secondo e poi terzo riff - a conferma dell'inprevedibilità di cui sopra -, diventa nostalgico e profondo (i Boards of Canada praticamente) facendo quasi a botte col beat (che nelfrattempo è diventato sempre più malato, pestoso e shockante) e gli onduleggianti geometrismi dei piattini (che viaggiano su di un binario apparte, spinti dal motore inesauribile che è la sperimentazione); il contrasto, nonchè il controcontrasto, è notevolissimo e perfettamente mette in luce le varie sfaccettature degli Autechre. Un concetto simile lo si intravede su "Hub" (indecifrabile e gigantesca ritmicamente, ancora tempi dispari, monumentale la chiusura glitchy) dove si assiste ad un singolare modo di programmare il ritmo, con piatti usati come casse, casse usate come piatti e un ribaltamento fisico della prospettiva percettiva, procedendo con fare ipnotico e austero, fino ad un senso di smarrimento totale (aiuta il singolarissimo synth/feedback stile campanaccio) che mostra in parte quelli che saranno i concetti del disorientante "Confield", immenso lavoro che vede la luce nel 2001 e illustrato alla perfezione in questi stessi lidi.
Con i droni di "Pule" si conia una sorta di digital-ambient che apre le porte a quello che è il pezzo, a livello di idee, più interessante dell'opera: la lunga "Nuane", suite di tredici minuti divisa in due parti. La prima nervosa e dai tempi dispari, cadenze percussive talmente distorte e marce da avvicinarsi stavolta alla prima industrial (quella dei settanta) e soprattutto interessanti sintetizzatori sincopati, che intervengono qua e la, usati come si trattasse di un sax (stessa cosa dicasi per la ritmica che sembrerebbe un frenetico solo di Toni Williams messosi per la prima volta di fronte a un sequencer) lasciando sviluppare il tutto fino ad una stramba operetta pseudo demenziale di nuovo molto vicina a quello che i Mouse on Mars stanno facendo nello stesso periodo; la seconda parte, molto piu sperimentale tanto da essere fondamentalmente incatagolabile, è indirizzata su di una sperimentazione unicamente digitale, rumori granulari e micro-glitch che pennellano tele ritmiche assolutamente inusuali; il synth apparso nella prima parte, prima perno centrale, adesso è ridotto a mero accompagnamento, e il suo utilizzo, piu che un sax sembra adesso l'intervento sporadico del piano tra il solo portante (che in questo caso, strano ma vero è rappresentato dal ritmo del piattino, continuo e mai domo per tutti i tredici minuti), mentra qui e la emergono organici tappeti catacombali e caotici strati di glitch dalla forma free, riportando alle lunghe orge elettriche di Bitches Brew. L'epica chiusura (perchè si, c'è anche quella manco si tratti di una suite progressive), come gia accaduto piu volte nel disco, è affidata al solo rumore, residui di non ben definiti suoni digitali posti sopra ad un segnale sinusoidale continuo: è il suono della sperimentazione, è la migliore chiusura che si potesse richiedere.
Se "Incunabula" era stato il top a livello di melodia, "Amber" come atmosfera e "Tri Repetae" come maturazione ritmica, "Chiastic Slide" lo sarà per quanto riguarda le idee, assolutamente trabordanti da ogni pezzo, e talmente tante da essere approfondite più volte nei due successivi parti ("EP7", "LP8") che sonstanzialmente riprendono il discorso (il primo incentrandolo sulla melodia, il secondo sulla sperimentazione ritmica) portandolo verso lidi ancora più astratti che culmineranno anni dopo nel summa di quella che è l'autechriana creatura, quel "Untilted" che ad oggi rimane l'ultimo episodio veramente degno di nota di un progetto che sembra aver perso parte dello smalto innovativo che lo contraddistingueva, ma che con ogni probabilità apporterà ulteriori novità in futuro, magari suggerite dalla nuova rotta electro-technoide-ambientale intrapresa dapprima sul deludente "Oversteps", poi sull'appena più degno "Move of Ten". Possiamo tralaltro ricordare come questa rotta punti più volte ad un'inaspettata riscoperta della miami bass/bass music dei primissimi novanta, portandola su di un piano più cerebrale e meno cazzone, un genere dimenticato da tempo che ultimamente sta vivendo una sorta di seconda giovinezza (basti pensare alla nuova linea editoriale della Planet Mu o alle recenti uscite dubstep influenzate da essa).
Che sia l'ennesima delle intuizioni anticipate dagli Ae?
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