"Se credete che il disco X del supergruppo occitano Y sia un capolavoro, è perchè voi filistei non avete mai avuto il fegato / portafoglio per acquistare Z!!"

Non è così che deve esordire la perfetta recensione di un gioiello nascosto del Progressive Rock? Fra l'altro quello di cui vi parlo non è semplicemente un gioiello nascosto, trattasi infatti di una gemma introvabile (salvo su Youtube), sotterrata sotto metri di terra e cemento, rinserrata in un sepolcro dimenticato per sempre... 

Scordatevi il clichè del gruppo Prog-Rock Settantiano sconosciuto alla Fantasy, Spring o Cressida: qui non troverete le mielose flatulenze di mellotron che contraddistinguono tali album: facciamo invece rotta verso una frontiera sconosciuta a bordo di un velivolo affilato e futuribile, coadiuvati da quattro ingegneri inglesi: Paul MacDonnell, Robert Cross, Trevor Darks, Dave Ball. 

In pieno 1976 questi quattro studenti, stanchi del bullismo dei loro compagni (insospettabili ex fan dei Camel passati al punk e fattisi violenti nel giro di pochi mesi) decidono di mettere su un gruppo che veicoli le ambizioni del leader Mac Donnell. Questi ha sviluppato una propria concezione di suite totalmente chitarristica, in grado di modulare su sonorità spigolose audaci armonie barocche, evitando allo stesso tempo il citazionismo spiccio e banale di un certo prog che in maniera troppo raffazzonata aveva tentato l'unione fra rock e classica.

Il suono della band è imperniato sul suono di due chitarre gemelle che si abbarbicano incestuosamente lungo tutto il disco, sostenute da basso e batteria.

La suite "The Great Panjandrum Wheel", divisa in due parti, è un manifesto di intenti: una danza ipnotica, estatica e sconvolgente di corde elettriche possedute e trasformatesi in vipere che di volta in volta accerchiano, scuotono, sconquassano e indemoniate scendono e salgono scale infinite sul bordo del Vuoto.

La strumentazione scarna del gruppo non deve far pensare a una struttura bidimensionale o semplicistica della musica: la composizione ricorda infatti molto da vicino la musica barocca, e moltissimi episodi elargiscono a piene mani lucenti passaggi che ricordano fughe di Bach (o Paganini), conferendo una qualità architettonica al suono degli AFT e rendendo allo stesso tempo questo disco molto più "classico" di quanto il devastante impatto sonoro possa far sembrare.

Posso dirlo? uno dei capolavori assoluti del Progressive Inglese... al vostro locale supermarket lo trovereste al banco "Hard Prog".

Folle pensare che a causa degli obblighi contrattuali il gruppo abbia registrato un brano simile in una sessione sola, buona la prima, trovando comunque una precisione laser negli infiniti "incastri" del brano. 

C'è da dire che dopo oltre mezz'ora (le due parti della suite durano un quarto d'ora ciascuna) si sente un pò il bisogno di una boccata d'aria. Ma "The Great Panjandrum Wheel" è bella proprio perchè claustrofobica, avvincente e sorprendente.

Il resto dell'album vede due numeri più corti, il primo è "Gladioli": qui le due asce gemelle affettano un riff che mi pare già sentito (simile a qualcosa di Mozart?), trasformandolo in una sorta di brano degli High Tide (mi immagino la "seconda" chitarra degli AFT come la supplente del violino di Simon House). Diciamo che la pecca di questo brano breve (4 minuti) è di ricordare troppo l'ingombrante affresco già descritto in precedenza.

 L'ultimo brano è "Queen Of The Night", un brano più approcciabile anche se meno affascinante: un suono più blues e - vi giuro!- del cantato! in realtà non troppo entusiasmante.

 Il gruppo suonò al Festival di Reading per poi sparire nell'anonimato. Del resto se avete letto "La Banda Dei Brocchi" di Jonathan Coe saprete come era ricevuto il Prog nel 1976.

Peccato perchè questi ragazzi hanno realizzato un album lungimirante, che anticipa per certi versi molti dischi prog-metal e un certo Prog chitarristico, spesso ricondotto troppo frettolosamente all'altarino di Re Fripp.

In conclusione i riferimenti sonori a cui possiamo paragonare gli Automatic Fine Tuning sono: certi sghiribizzi chitarristici del già citato Frippo Marx, gli High Tide, gli Heldon, forse i Djem Kharet (posteriori). Non mi viene a mente nessun altro, e sono comunque modelli non vicinissimi, a riprova dell'originalità del quartetto.

Andate ad ascoltarli subito, perchè, a causa della sua rarità, assai probabilmente la prossima recensione di questo disco sarà fatta fra 30 anni.

Inestimabile e rarissimo 

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