Scrivere recensioni di dischi spesso destinati a un pubblico particolare, circondati di quell'alone "radical chic" e quasi sicuramente promossi a pieni voti da quella stampa musicale che "ne sa" è un'abitudine piuttosto facile. E' semplice avventurarsi nel lodare le sperimentazioni pop dei Radiohead, le bizzarrie elettroniche di Bjork o i "grandi classici" della musica rock, quegli album incontestabili e inappellabili (il solo Scaruffi ci prova a sminuire i Beatles, aggiudicandosi pomodori e insulti che in un certo senso sono tuttavia meritati).
Più arduo è tentare di analizzare un album che per forza di cose va annoverato tra i prodotti di consumo di massa, un'artista cosiddetta "mainstream" che sforna singoli e videoclip che puntualmente finsicono in heavy rotation nelle radio e su MTV, soggetta quindi a un pesantissimo cinismo e una quasi sicura condanna da parte della prima citata critica musicale che "ne sa" e che magari stravede per banalità che però fanno più "cult" come gli impalpabili, secondo me, Interpol.
Ebbene, io dico che la canadese Avril Lavigne ha talento, e che "Under My Skin", il suo secondo album dopo il trionfo multimilionario del precedente "Let Go", è un lavoro decisamente sopra gli standard per il tipo di pubblico cui è rivolto.
Certo, sarebbe stupido negare che la bella presenza della giovane "rocker" non finisca per influenzare (in positivo o in negativo) sulla sua musica, ma ascoltando le sue canzoni e leggendo i suoi testi si intravedono delle sfumature che sicuramente non sono state tenute in conto nei giudizi di tanti giornalisti: innanzitutto, "Under My Skin" è un disco molto più "adulto" e convincente di "Let Go", che risultava veramente stereotipato e nauseabondo per i ritornelli infantili che lo buttavano giù. Era un discaccio.
Ora invece, malgrado c'è chi infonde dubbi sulla reale autenticità della personalità della Lavigne, emergono aspetti sicuramente più interessanti nelle trame delle canzoni, molto più tese e meno "gioviali", con una certa predisposizione alle chitarre pesanti utilizzate per contrasto nei momenti più "pop".
La produzione è lambiccata ok, ma non così tanto come si dice in giro: "He Wasn't" è un punkettone tirato ad alta velocità che non è certo da meno dei pezzi dei Foo Fighters, o di Courtney Love, o di altri reietti del rock americano... nemmeno la connazionale Alanis Morrissette si è mai spinta così duramente.
L'ingenuità di qualche power ballad invece di irritare mette quasi tenerezza: queste sono le pagine di diario di una ragazza che sta attraversando la fase che va da "giovane ribelle" a "donna arrabbiata" quasi noncurante di volere a tutti i costi rappresentare una frangia sessuale o generazionale, mostrando indifferenza verso il bigotto purismo della musica di protesta "femminile" e schiacciando il pedale del distorsore in tutte le canzoni.
Alla fine, sebbene non manchi qualche momento decisamente leggero come "Who Knows", la sensazione rimane quella di una forte inquietudine interiore ancora troppo celata e che, nel caso venisse fuori con tutto il suo vigore nei prossimi dischi, ci consegnerebbe una nuova grande cantautrice rock, rassicurante ma allo stesso tempo innamorata dell'estetica heavy metal, avviata a fare mordere la polvere a tante altre sue (presunte) concorrenti.
Per quanto mi riguarda, la Morrissette è già finita KO.
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