È stato uno dei nomi che mi ha fatto amare il prog, ora il mio interesse verso questo nome è leggermente scemato ma seguo sempre con grande interesse le uscite del progetto Ayreon, il progetto guidato dall’olandese Arjen Anthony Lucassen.

“The Source” non aggiunge nulla di nuovo a quanto già fatto in passato ma è un validissimo album di progressive metal operistico, che si lascia ascoltare abbastanza volentieri se non si hanno particolari pretese. Il sound del progetto Ayreon è sì sempre stato un mix di diversi elementi, ma non così vasto come sembra e alla fine, elemento più elemento meno, cambia qualcosa lì cambia qualcosa là, la minestra è all’incirca la solita, sempre molto buona ma la solita, ed è proprio per questo che non ci si rimane particolarmente delusi. Beh in realtà un pochino sì; perché viene dopo tre album decisamente grandiosi per varietà, idee e pomposità, gli album dove il progetto Ayreon si è compiuto ai massimi livelli.

Quest’album è invece abbastanza più spoglio, sembra essere più essenziale ed immediato, sebbene non rinunci ad una certa ricchezza compositiva. Si nota una particolare insistenza sulla componente metal; se prima risultava presente in maniera più discontinua e talvolta marginale ora invece è protagonista, se prima facevamo fatica a stabilire se il progetto Ayreon fosse effettivamente progressive metal o si trattasse invece di un progressive rock di ispirazione molto classica ma con una forte impronta metal qui invece non abbiamo dubbi; siamo di fronte al secondo disco più metal dopo “Universal Migrator Part 2”. Brani come “Everybody Dies”, “Run! Apocalypse! Run!”, “Planet Y Is Alive”, “Journey to Forever” e la più hardrockeggiante “Into the Ocean” hanno davvero un tiro incredibile, potrebbero piacere a qualsiasi metallaro random, anche se forse potrebbero accalappiare più facilmente un amante del sottofilone power-epic.

Ridotte significativamente le influenze elettroniche (che invece furono il piatto forte dell’album precedente), ma anche quelle folk (“All That Was” ne è un valido rimasuglio). Insomma, Lucassen si è orientato su un più “economico” power progressive metal senza troppe pretese ma dall’indubbia solidità.

Ma nonostante la validità del lavoro non si metta in discussione (si tratta pur sempre di prog-metal, musica composta e suonata da gente con le palle) non c’è nulla che faccia sobbalzare dalla sedia, tutto sembra davvero troppo ordinario, nasce l’ipotesi che Lucassen abbia un tantino esaurito le idee; lo si vede perfino nel cast, dove ricompaiono i già ampiamente collaudati James LaBrie e Russell Allen (anche se è da premiare la scelta di chiamare Nils K. Rue dei Pagan’s Mind, band abbastanza sottovalutata).

Album sicuramente valido ma di certo non ai primi posti delle uscite dell’anno.

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