Quando chiesi ad un mio compagno di studi cosa gli ricordasse la copertina dell'album "Love" degli Aztec Camera, rimasi piuttosto deluso. "Una giostra", egli mi rispose, non senza qualche ragione. A ben guardare era la risposta più ovvia e probabilmente anche quella giusta. All'epoca, però, in piena "sbornia" filosofica, a me quella più corretta ed anche scontata sembrava un'altra: il mito della biga alata e dell'auriga, quello che si trova in un dialogo platonico, "Fedro", dove si dibatte anche, ma guarda un po', dell'amore. Non poteva essere una semplice coincidenza. Il terzo album del colto Frame, che attendevo da più di tre anni dopo che i due precedenti mi avevano deliziato, quindi, si presentava ai miei occhi ancor più carico di aspettative. Non mi sembrava vero che l'ottimo Roddy, ormai one-man-band, potesse alleviare le copiose pene d'amore che quella stagione mi riservava. Così, già prima di posizionarlo sul piatto, suggestionato quell'impegnativa copertina, mi ero convinto che dall'ascolto di questo disco n'avrei tratto un beneficio, non solo estetico. Non rimasi deluso, anche se di filosofico in senso stretto c'era ben poco.

Perché il travagliato parto di "Love", prodotto "nientepopodimenoche" da Tommy LiPuma e Russ Titlman, che porterà il nostro, non solo musicalmente, nel Nuovo Continente, era davvero quello che ci voleva per un "ammalato" che aspirava alla "convalescenza". La casistica amorosa, con i dolci dolori e con i vertiginosi alti e bassi, è rappresentata nel migliore dei modo, a partire dall'idillio di "Deep & Wide & Tall" (..."Are we going to live together / Lovers over all / One unending understanding / Deep & wide & tall..."), frizzante pop d'annata delle highlands che sposa la black. Seguono le crisi, le insite contraddizioni, che trovano spazio nell'emozionante new soul di "How Man Are" ("It's called love / And every cruelty will cloud it / And his lie / True love could never allow it / 'Cos it's a lie that we have ceased to believe / We've said good-bye but it won't take its leave / Why should it take the tears of a woman / To see how men are..."). Non potevano mancare il passaggio "all'amore e basta", che crede di poter fare a meno delle convenzioni ("We make love in the face of it all / Feel the freedom and the purity / And what we need is not security / Something more than a law...") e l'esaltazione che solo la vera passione sa regalare, descritta con l'ingenuo ma contagioso rock'n'roll di "Somewhere In My Hearth" o con la penna intinta nel miele, come nel caso della luminosa, è proprio il caso di dire, metafora di "Working In The Goldmine" ('Cos I believe in your heart of gold / Automatically sunshine / Yeah, glitter, glitter everywhere / Like working in a goldmine..."). Il percorso termina con un bivio: la felicità insperata e abbagliante di "Paradise", altro pure-pop venato di "nero"; oppure la malinconia e le recriminazioni, condite da copiose libagioni, di "Killermont Street ".

In un altro più famoso dialogo platonico l'amore è visto come il ripristino di una mitica unione, il ricongiungimento di due metà complementari separate dagli dei causa l'arroganza degli uomini. Ecco, diciamo che con "Love" Frame, nel suo piccolo, ci ricorda come sia tormentata e allo stesso tempo esaltante la ricerca della nostra metà perduta.

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