La settimana era trascorsa quite depriment. Del resto, converrete, non fa mai piacere che l'azienda in cui lavori annunci un esubero di circa duecento dipendenti; e se per giunta sei un precario a tempo indeterminato, la cosa piace ancora meno.
Tuttavia, sarà la cangiante depressione bipolare che mi accompagna negli ultimi tempi, che mi fa profondare nella miseria esistenziale più nera con la stessa naturalezza con cui mi fa schizzare nella gioia più insensata, mi stavo affacciando al venerdì sera con l'antico entusiasmo della gioventù. Sai cosa? Mi vado a vedere il Fleischmann, che stasera suona ad uno schioppo di lupara: mi sdraio in una comoda poltroncina di teatro, al buio, magari ubriaco, con un po' di elettronica d'autore a cullarmi nel dolce dormiveglia dell'ebbrezza.
Costo dell'operazione: 12 euro, a dimostrazione che avere interessi che non coincidano necessariamente con i gusti delle masse ha ancora i suoi vantaggi.
Il viennese Bernhard Fleischmann è un musicista che, al pari del concittadino Christian Fennesz, ha saputo rileggere il paradigma elettronico in un'ottica più squisitamente umana ed intimistica: partendo dagli esperimenti maggiormente pop-oriented di Brian Eno, e facendo convivere i suoi studi classici con la passata esperienza di batterista, il Fleischmann approda nel 1998 alla Morr Music, diventandone l'artista di punta. Da quell'anno Fleischmann si è dato alle nostre orecchie in qualità di autore di un'elettronica parimenti intelligente e sentimentale, mai cervellotica e sempre al servizio delle emozioni, un'elettronica che non teme contaminazioni, finendo per sfiorare, oltre che i territori del jazz, del blues e del country, gli umori di un fragile cantautorato.
Come rendere tutto ciò dal vivo? Il palco è ancora vuoto, ma vedo con piacere, accanto all'immancabile consolle, due aste con due microfoni ed una chitarra elettrica. Accanto a me finalmente gente comune, un tantino radical-chic (prevalgono sciarpette, foulard, giacche di velluto, maglioni a collo alto, calze a righe e cappelli del cazzo), ma sempre meno finta di quelle merde di cazzoni nero-vestiti nazi-fetish anabolizzati che mi tocca ciucciarmi ai congressi post-industriali dove sono solito sderenarmi i timpani.
Stasera il Fleischmann presenta il suo ultimo album "Angst is not a Weltanschauung!", uscito nel 2008: cd che non intendevo originariamente acquistare, dato che nella mia collezione il Fleischmann presenzia più che decorosamente con "Welcome Tourist", che io ritengo il suo capolavoro ad oggi insuperato.
Aspettiamo con curiosità.
Il Fleischmann è come ce lo aspettiamo: faccia acqua e sapone, giusto mix fra timidezza e simpatia, e le sue frasi sconnesse fra un pezzo e l'altro suscitano ilarità nel pubblico, dimostrando la semplicità di un ragazzo che ha il buon vezzo di non prendersi troppo sul serio.
Parte una base ritmica minimale, accordi di pianoforte, suoni non ben definiti ad amalgamare il tutto: è "Hello" (opener anche dell'album), che ci ripropone l'inconfondibile stile dell'artista, riconoscibile a mille miglia. La vera sorpresa è il tizio alla sinistra di Fleischmann, un personaggio dal look impresentabile (maglione a V e camicetta con il colletto da truzzone) che scoprirò poi essere Sweet William Van Ghost, cantautore dalla voce rauca e profonda che tanto ci ricorda il Nick Cave dei tempi d'oro. Rimarranno delusi coloro che si aspettavano un concerto di elettronica: ci troviamo innanzi ad un raffinato pop d'autore, dove le tessiture elettroniche, le frasi spezzate, gli arrangiamenti stilizzati tipici dell'artista, fungeranno da decoroso sottofondo alle voci di Sweet William Van Ghost e di Marilies Jagsch, una tipetta niente male, gracile, trasandata, spudoratamente P.J. Harvey.
Il Fleischmann si riaffaccia quindi alla ribalta con un album che amplifica la propensione glitch, sconfinando definitivamente nei territori del pop e del cantautorato: una formula che a tratti potrà anche scadere in facili soluzioni, ma che sa sempre emozionare, e soprattutto conservare il gusto melodico e la poetica del compositore austriaco, tanto che ogni nota, pur nella sua semplicità, sa riscaldare il cuore e richiamare l'anima degli album precedenti.
In "24.12" il Nostro impugna la chitarra e ci ammalia con un post-rock un po' ruffiano, ma in grado di coinvolgere, anche grazie alla sempre pertinente performance della Jagsch.
A farmi maturare l'idea che sarebbe cosa buona comprarmi il cd, esposto allo stand a soli 13 euro (ma com'è bello ascoltare musica che non si caga nessuno!), è l'intensa "In Trains", una struggente ballata che parte molto Portishead, per poi evolversi in quello che, complici le ugole dei due cantanti, potrebbe essere un duetto fra Cave e P.J. Harvey. Nel sottofondo si proiettano immagini sembra azzeccate, fra lo psichedelico e la dotta citazione cinematografica, miracolosamente in sintonia con le drammatiche evoluzioni della musica. Ma a rompermi ogni indugio sull'acquisto è la formidabile "Phones, Machines and King Kong", spericolata rivisitazione del brano dell'amico Daniel Johnston: dal vivo è lunghissima, bellissima, intensissima, la voce campionata del giovane cantautore esce direttamente dalle casse, ma qui è soprattutto bravo Fleischmann a costruire un crescendo che si amalgama perfettamente alle liriche di Johnston, aiutato anche dalle suggestive proiezioni che ripercorrono nei suoi tratti salienti il noto capolavoro della cinematografia americana.
Ed è nei pezzi strumentali (pochi a dire la verità) che il Fleischmann dà il meglio di sé, dimostrando di essere musicista avveduto e competente, capace di districarsi con grazia fra manopole, manovelle, laptop ed interruttori, per donarci una musica per niente semplice eppure digeribilissima, con quella maestria e disinvoltura che è propria solo dei grandi. Frequenti i cambi di tempo e di ambientazioni. In più un messaggio positivo, quello di una musica che crede nella serenità senza però superficialmente sorvolare sull'innegabile complessità della nostra esistenza.
La ritmata "The Market", animata dal pulsare di un cuore vagamente latino, conclude in maniera divertente il set (che, per la cronaca, aveva previsto due parentesi cantautoriali, in cui, prima la Jagsch, poi Van Ghost, si erano cimentati in due momenti solisti, all'insegna di un ispirato folk-cantautoriale).
E l'album?, direte voi. Beh, "Angst is not a Weltanschauung!" conferma quanto di buono è stato detto sopra: come nelle migliori storie a lieto fine, me lo sono poi comprato, e la mattina successiva, che era sabato mattina, quando mi sono svegliato, e il sole splendeva fuori nel cielo, ascoltandolo mi sono sentito bene come non succedeva da tempo.
In fin dei conti, la vita val la pena d'essere vissuta.
When the marionettes started to pull the string,
they noticed that stocking fear helps to keep the strings hold tight.
I think:
Angst is not a weltanschauung!
B.Fleischmann
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