Babalot ha fatto l'antidisco.
Dopo il technicolor di 'Che Succede Quando Uno Muore', passa con disinvoltura al più chiaroscurale bianco e nero. E fa l'antidisco. Per dare una vaga idea: nonostante sul retro del disco sia segnalata la presenza di 15 brani, le tracce sono in realtà 27. Per un totale di 12 ghost-track o simil-tali (compreso un remix e due performance live a dir poco lo-fi). Dopo un po' ti viene il pensiero che il vero disco sia quello nascosto. Dopo un altro po' ti viene da pensare semplicemente che non abbiano scritto tutti i titoli perché non ci stavano. E poi te ne freghi: è Babalot.
27 canzoni, dunque, per un totale di 54 minuti: il conto è facile e disarmante. Antidisco frastagliato, che procede a singhiozzi, sempre alternando e sovrapponendo chitarre domestico-acustiche dal sapore rugginoso e polveroso ad elettronici inserti che hanno sempre un'aria un po' playmobil e plasticosa. L'antidisco rimbalza, si ferma, trottola, e il Babalot ci canta sopra con quella voce scazzata che parla del quotidiano scazzo con un'ammirabile miscela di disillusione e prosaica poesia. Nella parte non dichiarata del disco Babalot, in barlumi di lucidità, dà qualche saggio della sua folle arte (Consumo, Prima Dopo, Urgenza).
Ma è la prima parte quella che, al di là di ricostruzioni concettuali, rimane in testa: Spillatrice è un'apertura folgorante, con chitarrone elettriche e batteria che corrono per un minuto e mezzo di direttissimo poprock; Tutte Le Ragioni è la cosa migliore del disco, con assurdi balzi tra chitarra acustica e stacchi di ruvida elettronica con beat impazziti (e un testo, ancora, delizioso); Vuoto, con quella cascata di organetto, ti entra in testa e non ne esce più; Antifurto, dove sembra che a suonare sia la casa, col lavandino, il tagliaerba, il frigo, la caldaia; Diavolo, che in minuto passa dalla techno al folk; Smontavo Tutto, in cui la seconda memorabile strofa è pressata in dieci secondi di disco-punk da delirio. Insomma: ogni canzone meriterebbe una menzione. Eppure. Il ritmo frenetico a cui Babalot costringe chi ascolta rischia di essere fin troppo travolgente. Certo, è straordinaria l'idea di far perdere qualsiasi coordinata, disorientando sempre e comunque, spezzando i brani, bloccandoli quando sembra che stiano per partire, o facendone emergere solo vaghi conati (Dissociazione), ma l'esercizio, troppo prolungato, porta a qualche virtuosismo evitabile (e magnificamente evitato nel primo album).
E poi, diciamolo: il mondo di plastica di Babalot sarebbe ben comprensibile nella sua artificiosità ricostruita anche con una cura un po' meno grossolana delle sonorità. Un segno di vita, di sicuro. Aspettiamo che Babalot esca dalla sua reclusione ultrasperimentale fatta di lavatrici e scaldabagno e, dopo un grande antidisco, ci dia un grande disco.
Carico i commenti... con calma