Difficile descrivere un capolavoro. Bisogna trovare la forza e il coraggio di non pronunciarsi in cazzate dettate per lo più dal trasporto emotivo esercitato da esso. Beh, io ho deciso fermamente di farlo, fregandomene di quante esagerazioni sono in procinto di scrivere.

Le Babes in Toyland hanno raggiunto l'apice compositivo con "Fontanelle", loro terza fatica considerando l'esordio "Spanking Machine" e "To Mother", EP del '91. Viene conseguita una maturità lirico-melodica impressionante e un balzo qualitativo notevole rispetto ai sopraccitati lavori: se questi ultimi avevano un'impronta decisamente punk, seppure con divagazioni grunge e noise-rock, "Fontanelle" è caratterizzato da uno stile originale ed eterogeneo, pur rimanendo nei limiti dell'alternative (cioè senza eccedere con gli sperimentalismi... per quelli si rimanda a "Painkillers", EP del '93). Si toccano i generi più disparati: punk, grunge, ma anche no-wave, noise e blues, ma nessuna di queste etichette riesce ad esplicare meglio ciò che le Babes in Toyland praticamente inventarono con questo disco. Quello che colpisce maggiormente è la visceralità, la genuinità di quanto Kat Bjelland e socie esprimano in parole e musica: la vita vera, la loro, non quella che vorrebbero vivere o far credere di vivere. Una vita che non ha mai riservato loro nulla di positivo (se non, tardivamente, la fama): Bjelland ha conosciuto la madre solo all'età di 19 anni e la sua figura continua ad ossessionarla; Lori Barbero, alla batteria, ha subito abusi sessuali e sofferto di dipendenza da droga e alcool, tutte violenze morali e fisiche che vengono tradotte nella loro arte, che in "Fontanelle" è particolarmente sublimata.

Il suono tragico dei tamburi di Lori Barbero dà inizio a "Bruise Violet", dove la voce di Bjelland s'alterna tra toni disperato-rabbiosi e angelico-disincantati. Le liriche sono un'invettiva contro l'ex-bandmate Courtney Love («You, fucking bitch, well I hope your inside's rot»): tra le due non è mai scorso buon sangue, probabilmente a causa del fatto che Kat cacciò varie volte la Love dai suoi gruppi (la quale, a questo proposito, le dedicò un verso nel brano "Good Sister/Bad Sister" che recitava: «I'll be the biggest dick that you've ever had/Hey, want it bad, you want it bad»). Al di là dell'importanza testuale, "Bruise Violet" si colloca ai vertici del disco per lo stile chitarristico di Bjelland, vagamente metal e assai spasmodico, e per il modo decisamente innnovativo di suonare la batteria da parte di Barbero: per lei cassa, rullante e high-hat sono di complemento, non essenziali. Ma il vertice assoluto è rappresentato da "Right Now", dominata ancora dal ritmo tribale di Lori e da una linea di basso grave, potente, tragica, che regge la strofa insieme ai sussurri di Kat, che denuncia il dolore provato per l'assenza di una figura materna nella sua vita. Un dolore che viene esternato interamente tramite la forza del ritornello, in cui Kat, con urla sgraziate e disumane, rinfaccia sommessamente alla madre l'adolescenza di merda che ha dovuto trascorrere a causa sua («I'm in the right, now») ed è rinvigorita da un riff di chitarra emotivo, esagerato, durissimo. Nel bridge Bjelland è un angelo che canta su passaggi di chitarra metal incisivi e sulle devastazioni della batteria.

In "Bluebell" il registro vocale è quello di una bambina impertinente che si trasforma in una maga malvagia. In effetti, questa è anche l'essenza del suo look da kinderwhore caratterizzato da elementi contrastanti come vestiti infantili e autoreggenti stracciate. Altro episodio di rilevanza lirica, in cui Bjelland rivendica il diritto di essere rispettata dall'uomo, autoimponendosi una sicurezza di sè: «You're dead meat, motherfucker, you don't try to rape a goddess». Forse la traccia più immediata, per così dire, è il grunge devastante di "Handsome & Gretel", in cui le urla di Kat si elevano sul tutto, accompagnate da un riff di chitarra semplice ma di un'efficacia spaventosa. Nelle liriche la leader dimostra di non essere propriamente una brava ragazza: «I've got a crotch that talks, it talks to all the cocks, it's been twelve city blocks». L'originalità delle Babes in Toyland si palesa in un pezzo come "Blood": una chitarra schizoide come poche, urla all'impazzata, una batteria anticonvenzionale e liriche sarcastico-deridenti sono gli ingredienti che nessun'altra riot grrrl riuscirà a procurarsi.

Lori Barbero è anche una cantautrice apprezzabile; lo dimostra in "Magick Flute", pezzo che fonde alla perfezione punk e blues. Irresistibile il giro di basso di Maureen Herman (a mio avviso la migliore bassista del foxcore, accanto a Elizabeth Davis delle 7 Year Bitch che spesso comunque ha attinto da lei), che segue a modo suo la batteria a costituire la marziale sezione ritmica. In tutto ciò, Kat si "limita" a costruire delle splendide frasi di chitarra, tra l'ansioso e il miagolante. Sarà tuttavia la protagonista assoluta in "Won't Tell" e "Spun", in cui figurano ancora atteggiamenti vocali infantili intervallati da acuti inimmaginabili, che hanno lasciato tante riot grrrl a bocca aperta. "Quiet Room" è invece un episodio strumentale rappresentato da un lunghissimo arpeggio di chitarra che s'intreccia con gli incantevoli giochi di basso di Maureen Herman, a ricreare un'atmosfera magica, quasi medievale.

Pochi ma strarilevanti i momenti sperimentali: "Jungle Train" è talmente disturbata tra i rumori delle chitarre, le urla da strega cattiva di Kat, i bisbigli della stessa che si sovrappongono al letterale vomito dell'ospite Stu Spasm, leader dei Lubricated Goat e all'epoca marito di Kat; "Gone" è invece uno sfogo intimo della cantante e vede bottiglie di vetro frantumarsi sulla base di una chitarra ritmica distorta e lamenti tra il nenioso e il commuovente.

Verso la fine del disco si concentrano i capolavori: "Pearl", dal piglio indisponente, guidata da una chitarra ruvida e tagliente; "Realeyes", dove è ancora il basso di Maureen Herman a stupire (ah, se solo trovassi una bassista così per il mio gruppo!) e la trascinante "Mother", la più sentita e complessa a livello psicologico, pura violenza psichico-fisica trasmessa per intero attraverso il cantato e gli strumenti, tesi più che mai. Il testo rivela le turbe dell'animo di Kat, che dapprima lancia insulti feroci alla madre e infine s'identifica con lei; da non far raccapezzare più nemmeno Freud.

La grandezza delle Babes in Toyland risiede nel raccontare se stesse, nell'esprimere autenticamente ciò che provano, coniugando perizia tecnica e "artisticità" alla perfezione.

Carico i commenti...  con calma