L’implacabile sondaggione del lunedì ha declassato l’espressione “sfumature di grigio” all’ultimo posto, con un coefficiente-dignità dello 0,53%. Peggio di “trucco e parrucco” (0,59), “impiattare” (0,62) e “frappuccino” (0,68).

Che fare, per risollevarne le sorti? Io la butto lì. Dalla cellulosa ai padiglioni: riprendiamoci tutti il 1996 e delle “shades of grey” con i controcoglioni. Anzi, gray. Siamo pur sempre sull’altra sponda dell’Atlantico.

Gestazione difficile, quella della razza grigia. Il perché lo sanno tutti: Brett Partitaiva Gurewitz saluta accigliato e si smezza tra rehab e fatture; Il PhD ugola d’oro deve dimostrare di essere cool e punk nonostante la media eroina drammaticamente bassa. C’è l’incognita Baker, rincalzo di gran lusso, che ha declinato la pingue proposta dei R.E.M.: riuscirà a inserirsi nel gruppo? O, almeno, l’ago nel braccio? Infine, all’orizzonte si addensano le fosche nubi di una major, già accollatesi la pubblicazione di un troppo radiofonico “Stranger than Fiction”.

Insomma, la domandona è una: viste le traversie della formazione e la Atlantic, suonerà ancora punk, “The Gray Race”?

La risposta è sì. La razza grigia è un disco bellissimo che, pur sottratto all’egida di mamma Epitaph, conosce momenti davvero unici. Un deciso passo in avanti rispetto al pur pregevole lavoro precedente che, fra ospitate e singoloni acchiappa cash, pareva l’anticamera dell’armageddon.

Via gli arrangiamenti “allegri” di “Stranger than Fiction”: l’atmosfera è plumbea, cupa, malinconica.

Grigia, appunto.

Chitarrismo abrasivo e lo-fi che, in più di un’occasione, strizza l’occhio a “Suffer”.

E in Suffa la titletrack ci sarebbe stata benissimo, perché nei suoi 126 secondi sferza con incazzoso orgoglio, sapendo di far male. Un’elegia disillusa e triste. Il tema è attualissimo: l’uomo, ebbro di emozionali sfumature – d’infinite “scale di grigi” – mortifica la sua complessità nell’aut aut del bianco/nero.

- Cosa c’è di più mesto, in effetti, del bianconero? Il mio veniva da Cosenza, conosciuto ieri. Considerava Sculli ‘un rimpianto’. No, dico, Sculli. El pibedelocri. Mavabbé -

L’umanità proteiforme si banalizza nell’avvilente linguaggio degli strumenti che confeziona. Il codice binario, i premi di maggioranza, la condivisione sui social (vista sempre come un fine, mai come un mezzo), l’ottimistica e superficiale codificazione illuministica: frigide dicotomie che non riescono ad apprezzare le infinite proiezioni dell’intelletto creatore.

Dato di fatto: abbiamo apparecchiato il mondo come una roulette. Esce il rosso esce il nero. Cinico, ma indubbiamente pragmatico. Efficace, istintivo. Pari agli animali, che attaccano o fuggono. Dormono o cercano cibo. Sono o non sono in calore, ma non fanno l’amore.

Di qui il dilemma: per realizzarsi nel suo mondo, che deve fare l’uomo? Crogiolarsi nella splendida inefficienza del suo spettro emozionale o adottare un atteggiamento più cinico e istintivo, riducendo ogni complessità a un asettico bivio?

La contrapposizione manichea di valori e ideali è, ad ogni modo, il filo conduttore dell’intera opera: dalle censure al razzismo (“Them and Us”) all’esaltazione dello spirito libero che sfida l’establishment (“A Walk”, “Punk Rock Song”), passando per l’incomunicabilità delle esperienze (“Parallel” – reprise di “Best for You”), il proselitismo interessato (“Come Join Us”) e l’ipocrisia di chi crede sempre di poter salvare il mondo (“Spirit Shine”, con evidenti rimandi al “brother christian whose actions speak too loud” di “I Want to Conquer the World”). Contrapposizioni che, manco a dirlo, sono l’eloquente strascico della profonda frattura che ha interessato i membri della band.

La genesi “tormentata” del disco rivela anche negli arrangiamenti una vera e propria doppia anima: le abrasioni chitarristiche figlie del surf-punk (“Ten in 2010”, “Nobody Listens”) si stemperano nell’intimismo dei testi e nella dolcezza malinconica delle linee vocali (“Victory”, “Drunk Sincerity”), delineando la confidenza di Greg Graffin con il folk, suggellata in “American Lesion” l’anno seguente.

Ma la profonda emotività non snatura il prodotto. Brian Baker si rivela all’altezza del ruolo, portando con sé Dag Nasty (leggi “The Gray Race” e pensi a “Can I Say”) e un po’ di Minor Threat: finalizza gli assist ritmici del mai troppo rimpianto Hetson (unico appunto: forse assoli un po’ troppo simili, con l’immancabile coda di ottave) e supporta Graffin nel canto dell’apocalisse quotidiana.

Il sommo vate del Wisconsin ce l’ha fatta anche da solo: pacato, sempre a suo agio, al di là del bene e del male, scrive l’ennesima grande pagina del suo vangelo laico. Nichilismo commosso e partecipato, ma anche consapevole della sua essenza. Le vanaglorie del mondo potranno traviarci, infiammarci i suoi ideali, ma non ci si deve far irretire dagli ebbri incantesimi del carneade di turno: non siamo immortali. Né noi, né le nostre idee. Tantomeno le nostre promesse. Le forze entropiche ci spingeranno nell’abisso, cullati dalla pace eterna dell’oblio: tutto – la quotidianità effimera dell’erba, la superbia millenaria dell’impero – deve cessare.

Sì, “Cease” nel lotto è il fuoriclasse, il fantasista che non ti aspetti. Dell’etica e dello stile badreligioniani è raffinatissimo compendio.

Summa della filosofia punk tutta, si esalta nei suoi fendenti chitarristici e nell’epilessia finale degli assoli, prima di addormentarsi definitivamente, anticamera del caos eterno, lasciandoti con due ancestrali interrogativi:

- Quanto male deve volersi uno per incidere “Punk Rock Song” in tedesco?

- Perché Brett ha fondato quella cagata dei Daredevils? No perché il professore da solo è bravo ma poi ti ritrovi a pogare con cose tipo “proclami te stesso esperto grazie alle particolareggiate inferenze delle tue divulgazioni”. Ma un “Fuck the system”? No eh?

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