Ci sono pochi, pochissimi artisti che, fin dalla prima volta che ti imbatti in loro, ti danno la netta quanto irrazionale sensazione che essi scrivano per te, che una fausta congiuntura astrale li abbia finalmente condotti al tuo cospetto per soddisfare le tue sempre esorbitanti aspettative musicali. Nei casi più gravi, questa già megalomane illusione diviene delirio, quando ti convinci che tutta la loro produzione discografica segue i tuoi mutevoli stati d'animo o che, addirittura, siano essi stessi a influire magicamente sull'ispirazione di quei songwriters, suggerendo loro quasi i percorsi da intraprendere, i temi da affontare.
Badly Drawn Boy, per quanto mi riguarda, rientra più che mai in questo ristretto novero. Così stando le cose, capirete che avrei potuto recensire uno qualsiasi degli album di quell'imprevedibile freak di Damon Gough e sempre ne avrei tessuto le lodi. Se la scelta è caduta su "One..." non è solo perché è l'ultimo, ma perché tra tutte le perle della sua pur breve carriera, questa è forse quella che, almeno per me, risplende maggiormente, nonostante la critica ufficiale voterebbe, ne sono convinto, per il suo fragoroso debutto. Certo, mi sembra già di sentire le obiezioni di quelli che diranno che il "ragazzo disegnato male" non ha inventato niente, che la sua musica è figlia di troppi padri; ed altri che gli rimprovereranno di eccedere negli arrangiamenti, di essere troppo sopra le righe. Ma, almeno per quanto mi riguarda, il talento compositivo di Damon ha pochi pari allo stato attuale, di un livello paragonabile, senza voler scomodare mostri sacri del passato, a quello del compianto Elliott Smith. Egli è un musicista che riesce ad essere, pur scegliendo modelli diversi quasi ogni brano, sempre riconoscibile e, a modo suo, "originale". Nonostante qualche scelta un po' azzardata, da "cavallo pazzo" quale è, nell'arrangiamento di qualche brano, egli raggiunge quasi sempre un mirabile equilibrio tra pop, folk e moderno cantautorato alla Beck, grazie al suo gusto sopraffino e all'innato talento per la melodia.
Chi avesse dei dubbi in merito può soffermarsi anche solo sui primi quattro brani dell'album, un poker d'assi che non ammette repliche. Nella title track, all'inizio, sembra di essere in un brano folk, ma all'improvviso si accendono le luci e un piano, un vibrafono, degli archi, perfino una tromba si mescolano disegnando un acquerello che, se avesse potuto John Lennon, credo, avrebbe volentieri firmato; "Easy Love" invece, sussurato grido di dolore, riesce ad evocare la diafana figura di Nick Drake. Il rock anni '60, quello della West Coast, fa da guida in "Summertime in Wintertime", con flauto andersoniano a doppiare la melodia. Il quartetto si chiude con "This is That New Song", una ballata commovente, quasi musica da camera, con un triste violoncello che dà corpo alle sue (tue) malinconie, con il fantasma di Drake che rifà capolino.
Chi proseguirà nell'ascolto, invogliato da cotanto viatico, non dovrà pentirsene. Altri dieci brani, senza cadute di tono e con almeno un'altra terna notevole da tirar fuori dal suo inconfondibile cappellino: "Four Leaf Clover", che strizza l'occhio a Kurt Wagner; "Logic of a Friend", tipico "pastiche" alla Damon, nel quale vengono centrifugati vari elementi, compreso un Peter Gabriel d'annata; e "Take the Glory", brano di apparente impostazione classica, con uno struggente piano solo, che nel crescendo si arricchisce di effetti tra il jazz e il prog.
Il ragazzo è disegnato male, questo è fuori di dubbio. Ma, quando ascolterete queste canzoni, vi sembrerà di ammirare un bozzetto di Michelangelo.
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