Uscito nel 1989, il disco contiene materiale vecchio di vent’anni, forse (?) con l’intento di galvanizzare gli oramai disillusi (e, per certi versi, giustamente incazzati) puristi del prog.
I tempi dell’esordiente Salvadanaio sono concettualmente e cronologicamente lontani, Di Giacomo non si è ancora unito al gruppo e i nostri, giovani e freschi, presentano un’acerba miscela: beat assodato ma per nulla stantio, con qualche timido accenno al radioso futuro. Nonostante l’impegno profuso, la voce principale, affidata a Vittorio Nocenzi, non emerge dall’anonimato e le canzoni, globalmente, ne risentono.
Da un primo approccio smaccatamente beat (“Ed io canto”, “Cantico”) si passa subito per vie intermedie, dove goffi, ma coraggiosi, tentativi di conciliare due antipodi (“Piazza dell’Oro”, “Mille Poesie”) cedono il passo a repentine ritirate verso l’usato sicuro (“Un Giorno di Sole”) ovvero episodi spassosi e divertenti (“Bla, bla, bla”).
Ma in questo caotico contesto, in una sorta di nebulosa né beat né prog, si trovano anche spunti più maturi e profetici, e tra scorribande di organo (“E luce fu”) e pseudo suite (“Mille Poesie 2”) si arriva al brano che dona il nome all’intero disco, una strumentale e forsennata cavalcata che esprime al meglio un’esplosività ancora in fasce: quel perfetto ed orchestrato battibecco tra organo, piano e flauto che diverrà un acclamato marchio di fabbrica per un'intera epoca.
Tutto sommato una buona prova, ma siamo ancora nel 1969 e la pietanza non è ancora pronta. La formazione, d’altronde, non è “classica” ma primordiale, comprende infatti i fratelli Nocenzi, Fabrizio e Claudio Falco, Franco Portecorvi. Ancora qualche anno di cottura, quel pizzico di sale in più (tra i vari cristalli, l’inconfondibile voce di Francesco Di Giacomo) e poi via, tutti ad abbuffarsi al banchetto del progressive.
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