Mi è capitato di svegliarmi per due mesi di fila con una luce al neon che mi dava la sensazione di stare chiuso in una di quelle celle dove ti tengono serrato con la camicia di forza. Avevo anche i capelli rasati e la sensazione di essere un po' malato, anemico. Speravo che la chioma ricrescesse. Il fulgore artificiale di una stanza tutta comfrot chiamadonne mi faceva svegliare di soprassalto, con la cassa toracica sinistra deformata dalle pulsazioni fraudolente di un cuore su cui avevo perso ogni tipo di controllo. Dimenticavo sempre di non farlo, cazzo, eppure succedeva: dopo aver realizzato di essere in qualche modo ancora vivo smadonnavo, tiravo le quattro ossa rinsecchite su e me ne andavo verso la finestra, aprivo la tenda e una nebula grigio antracite sbatteva vorticosa sul vetro. Fuori non si vedeva un cazzo di niente. Per me c'era tanto di quel buio dentro e all'esterno che il neon pensavo fosse un miraggio punitivo.
Ero nel mezzo dell'inverno di un'isola del nord Europa, nessuno lo sapeva, avevo chiuso tutti i collegamenti con l'Italia, avevo ventuno anni e già l'urgenza di fare un po' di conti con me stesso. Non avevo avuto chissà cosa ma ero riuscito a procurarmi così tanto dalla vita che ero abbastanza annoiato da tutto e tutti. Non sapendo cosa volere e cosa fare di me stesso ho chiamato casa per avvertire di una mia immediata partenza senza aggiungere altro. Un'oretta dopo mi ero imbarcato su un aereo che partiva a costo zero (proprio zero) il 13 settembre 2001. Guarda un po' quante circostanze sono ruotate intorno a due torri cadute.
Insomma ero lì. Sapevo che nessuno mi avrebbe cercato. Non era disinteresse, era solo che mi conoscevano bene: quando prendevo decisioni drastiche c'era solo da attendere una risposta definitiva. Funzionavo così. Questa scelta era stata difficile da prendere. Mi costò parecchi chili, parecchie lacrime, parecchia voglia di vivere: ero sotto il barile e raschiavo per provare a sfondare il fondo e ritornarci dentro. Ma non capivo quali fossero le radici del mio male interiore, dell'improvvisa assenza di stimoli, di quel tarlo che mi rodeva dentro.
Con quel tarlo ho convissuto un bel po'. Ovviamente me lo sono portato con me e lo sentivo rosicchiare famelico quando, dopo soli due giorni di permanenza, mi ero procurato un contratto rispettabilissimo per lavorare le solite otto ore al giorno con straordinari davvero straordinari in busta paga ogni fine mese.
Il recruiter che avevo di fronte mi disse che dovevo immediatamente trasferire la mia iscrizione universitaria lì perché avrei fatto carriera. L'insegna che stava in cima all'edificio era uno di quei nomi conosciuti in tutto il sistema terracqueo. Dopo un mese ebbi la certezza, lavoravo bene e guadagnavo meglio. Potrei restare qui mi dicevo. Ma non era quello che volevo. Mi ero dato una dimostrazione secca di saperci in qualche modo fare ma il tarlo era ingrassato e io, invece, dimagrito. Lo specchio dava responsi sempre più negativi. Soprattutto gli occhi: nonostante in quella landa sferzata dal gelo fossero ancora seduttori, su di me non sortivano più l'effetto di sempre. Non ci vedevo niente dei miei venti anni passati senza dormire quasi mai, delle persone, tutte le persone, che avevo conosciuto. Le ultime mi avevano visto la sera stessa della partenza e poi non c'ero più. Chissà cosa cazzo hanno pensato. L'unica via di fuga era il fine settimana, quando affittavo una Opel Corsa color salmone a due lire e mi giravo quest'isola dove la presenza umana era davvero qualcosa di insolito. Fragore di acque, vento, erba rada e un nebbione tremendo. Dovevi uscire bardato se non volevi essere divorato dal nulla. Altre vie di fuga non ne avevo. Le infrasettimanali erano, più che altro, fallaci uscite di sicurezza che si imboccavano alle cinque del pomeriggio e portavano direttamente in una specie strana di locanda dove non potevi fare altro che ubriacarti malamente e poi chiamare un taxi per riportarti indietro. Questa era diventata la mia vita. Una scala a chiocciola per una caverna senza fondo che percorrevo a testa bassa. Almeno questo. Io i miei problemi, anche quelli dalle cause sconosciute, li ho sempre affrontati.Non avevo dietro niente che mi potesse ricondurre con la mente a persone familiari. Non scrivevo né chiamavo nessuno. Volevo uscirne da solo ma non ce la facevo.
Fu proprio nella peggiore delle mie giornate in quest'isola che si faceva carico della mia deriva, che colui che mi aveva scelto, alle ore sedici e cinquantanove minuti primi mi fermò e mi disse di smetterla di bere, con la faccia che lanciava frecciate di fattischifodasolo. Mentre se ne andava blaterai qualcosa tipo dimmelo in faccia tutto quello che pensi. Ma lo aveva appena fatto. Per la prima volta il corridoio che si svuotava avrei voluto che fosse pieno. Quella sera me ne tornai a casa subito. Con molta freddezza mi preparai una cena che al lume di candela sarebbe stata perfetta. L'ospite era quell'altra parte di me. Quando tutto fu pronto ero di nuovo uno straccio sporco e da buttare. Volevo sfogare in qualche modo. Mi feci prendere dall'incoscienza più totale e decisi che ci voleva una donna. Provai a fare il numero di una collega straniera che sapeva di buono e che indossava i panni più dimessi di tutto il baraccone. Non la conoscevo proprio ma sembrava che aspettasse quella chiamata da tempo. Feci il galante, le mandai un taxi. Di tutta la cucina italiana che avevo abbozzato la cosa che le piacque di più fu l'unico oggetto di famiglia che mi ero portato dietro. Un dagherrotipo con i miei trisavoli che ancora è con me intatto. Insomma, la cena era na chiavica ma si aprivano spiragli per dirsi qualcosa. Tipo che il mio trisavolo era molto burbero d'aspetto con i baffi che pesavano tre chili a mustacchio. Tra me e me pensavo ad altra voce che chissà il suo vikingo come doveva essere. Parla parla si fa l'ora di accendere lo stereo e mettere la radio rock di quella zona. Passano un brano dei Band Of Susans. Chiedo di cambiare che mi butta giù. Lei lo fa e mi dice che che ci sto a fare là.
Il giorno dopo sulla mia scrivania c'è un disco per me. Band Of Susans - The Word And The Flesh.
Finalmente uno stimolo, ovvio, raccolto con tutta la diffidenza, la negatività, l'urto e il fastidio possibili ma finalmente un qualcosa da recepire. Lavorai malissimo quel giorno. Perché lo trascorsi a pensare a quella nebula grigio antracite fuori dalla finestra che era la prima cosa che mi era venuta in mente dopo aver ascoltato qualche secondo di un brano. Un brano che sembrava animare quel tormentato vorticare di aria acquosa. Non la vidi quel giorno. L'avrei rivista solo il mio penultimo giorno sull'isola.
Tornato a casa era tutto ok. Ero diventato ordinato. Decisi di riempire lo stomaco per evitare che potesse infierire la gastrite. Alla fine ci bevvi pure un bel litrozzo italiano rimediato nel negozio più caro della città. Entrai nel trip e lo fu davvero: se la gastrite si riattivò non l'ho neanche sentita.
E' stato, ad oggi, il mio ascolto più intimo e personale di un disco. Magari a così tanto tempo di distanza neanche ci penso più con la stessa intensità dei primi anni ma appena scavo un po' riemerge fuori tutto. Forse per questo sto scrivendo questa recensione. Fu un ascolto convulso e immobile, stavo sul divano mentre capivo che molte cose sarebbero cambiate nella mia vita di lì a poco.
The Word And The Flesh mi mise sotto di brutto. Sembrava un disco di quattro accordi, per me che pensavo a tutt'altra musica, e invece era un disco così ragionato da sembrare un discorso di mio zio filosofo. Forse gli accordi per la chitarra in tutto sono quattro davvero, ma c'era (mi piace utilizzare qui l'imperfetto "infantile" individuato da Gianni Rodari - vedi Grammatica della Fantasia) un progetto chiaro dentro, una scientificità ciclica di rimandi alla tristezza sotto varie forme. Riuscii a vedere tutte le mie ed ebbi più chiare tante cose. E' un album dove si ragiona per astrazioni alte che prendono alle viscere, dentro ha qualcosa di arcaico e ancestrale. Non lo so perché ma mi ha fatto pensare agli aborigeni, a quelle popolazioni apparentemente semplici e primordiali che hanno un contatto molto diretto con la verità. Dentro c'è una molteplicità di tessiture che mi stesero addosso una trama calda. E dire che io me l'aspettavo fredda. Con i muraglioni di chitarre fragili i Band Of Susans sono andati a scontrarsi con quella nebbia che in apparenza evocavano, attraversandola e creando un varco di cui dovevo approfittare. Sempre queste maledette chitarre si adoperavano in passaggi di alta ingegneria che mi riportavano al kraut, mentre in altri casi si scioglievano proprio prendendo una primissima nota di sapore shoegaze. Lo catalogano come un album noise / alternative e ci può stare. Ma sul versante noise c'è un contegno che viene stuprato solo a tratti, e che resta sempre in piedi, come in una maratona incessante, a ricordarti che nonostante tutto il traguardo può essere dietro l'ultima oncia di nebbia compatta e per questo non lo vedi. Mai fidarsi di feedback e riverberi a camionate. Dietro c'è quasi sempre qualcosa. E quel qualcosa non mi spaventava più. Quella malinconia cantata diventò consapevolezza di essere triste e di non poter stare più dentro quei panni. Quelle ballate per piccoli io in difficoltà diventarono la benzina per i miei giorni a seguire.
Per finire, inizio dal giorno dopo. Chiamai il padrone di casa e saldai tutti i conti lasciando un abbondante lascito per eventuali costi supplementari e bollette in arrivo. Chiamai a lavoro. Mi feci spiegare da quelli dell'ufficio del personale come andarmene senza fare un gran casino. Preparai tutti i documenti a casa. Poi stetti circa cinque ore al telefono. Cinque ore. Giuro. A fare quel numero e riattaccare sempre. Sempre. Dopo cinque ore però lo feci e lasciai squillare. Dissi solo e tutto d'un fiato: parto da qui. fammi un biglietto di ritorno per il giorno tot mandami il dettaglio via mail ciao e scusaaaaaaaaaaaaaaa. Riattaccai. Ricevetti tutte le istruzioni necessarie per un volo davvero allucinante il giorno dopo. Non avevo fatto io il biglietto perché non volevo stare troppo in giro. Volevo prepararmi, accendere le ultime luci, dare giustificazioni a tutti quelli che si erano sicuramente presi un botto per me.
Il giorno prima di partire andai a salutare la baracca e cenai di nuovo con lei. Successe solo che scoprii di avere, da quel giorno, un punto di vista nordico sui fatti della mia vita. E vi assicuro che è una fortuna non da poco, visto che dura ancora oggi.
Poi partii. Non ci fu bisogno delle giustificazioni. Dopo due giorni ero già in condizione di riprendermi. Fui io a rallentare. Il passo indietro era comunque più difficile di quello fatto per andare via. Da quel disco so solo che ricavai un amore smisurato per la musica tutta, che da allora ho sempre ascoltato senza pregiudizi, e la migliore lezione di vita che non fu la mia ma quella di mio padre. Zero parole, solo un bellissimo sostegno. Se non avessi ascoltato quel disco, oggi chissà cosa sarei.
Vaffanculo alla depressione. Non l'ho capita ma l'ho fatta a pezzi in un'oretta circa, giusto quanto dura il disco.
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