Se fossi andato in una qualsiasi high school americana potrei riguardare ad ora, right here, right now, l’annuario dell’ultimo anno, in un alone un po’ nostalgico e malinconico, ricordando i bei tempi. Vecchi volti, vecchie esperienze, vecchi me stessi. Cercare nel passato i ricordi migliori che sono lì impressi nella memoria. Ecco, ascoltare i Bane per il sottoscritto equivale più o meno a un’esperienza del genere.

Così ti rivedi di come da ragazzino nei primi anni delle superiori vieni a contatto con i Converge, con Jacob Bannon, Kurt Ballou, Nate Newton, Ben Koller e, last but not least, Aaron Dalbec. Eh sì, incominci ad ascoltare giorno e notte Petitioning The Empty Sky, t’innamori di ogni singolo intreccio di violenza, dolore e delle esplosioni soffocanti di un gruppo che pian piano s’apprestava a diventare un colosso della East Coast americana e non solo. Con meticolosità inizi a girovagare su un vecchio 56k con velocità degna di una Chevy scassata degli anni ’70 a cercare informazioni sui componenti, ti leggi interviste, report. Fai il compitino, insomma. E trovi i Bane. E ascolti The Note. E poi ancora Give Blood. E a ritroso scovi It All Comes Down to This. Da un giorno all’altro ti ritrovi catapultato nell’hardcore, no..nell’hardcore melodico, eppure è così diverso da quello dei Black Flag, aspetta son straight edge, eppur i Minor Threat eran altro sound. Per me, abituato alla scuola ’80 spesa fra Gang Green, Reagan Youth, Bad Brains e primi Suicidal Tendencies era una piccola rivoluzione. Ma in fin dei conti, come direbbe il noto festival annuale a Phillly, sui Bane nulla è più semplice che una banale definizione : this is hardcore.

I tempi passano e si giunge al 2014. Dopo 9 anni da “The Note” i Bane se ne escono alla scoperta dicendo che usciranno dalle scene, per sempre, definitivamente. Un colpo al cuore. Ma un’ultima testimonianza la vogliono lasciare : Don’t Wait Up. Come dire, stanotte usciamo a divertirci, a suonare con la nostra crew tutta la notte, a fare quello che ci riesce meglio come se non ci fosse un domani, un ultimo grande concerto in cui celebrare la grande creatura Bane che se ne va a riposare eternamente. E voi, vicini di casa, conoscenti, passanti che incrociamo lungo Massachusetts Avenue non aspettateci, faremo tardi, andate pure a dormire. Don’t Wait Up, per l’appunto. E così fu. Dall’inizio alla fine, lungo dieci pezzi c’è l’anima dei Bane. Hanno reinventato una scena, con loro son arrivati da lì a breve American Nightmare, Modern Life Is War, Have Heart, Killing The Dream e compagnia bella, e l’ultimo sospiro non può esser qualcosa di spento e flebile. Assolutamente vietato e i nostri si son impegnati a realizzare un full length che può essere messo tranquillamente fra i migliori episodi della loro discografia. Un concentrato di passione, adrenalina ed energia che solo il punk può darti. Attaccano con “Non-Negotiable” e ti trascinano nel loro vortice. Jay Mass (chitarrista dei Defeater) produce divinamente restituendo solo la potenza sonora che i Bane sprigionano, in modo definito, ma aggressivo, sporco, senza sfronzoli e abbellimenti. Come un disco dovrebbe suonare sempre. A meno che non siate feticisti dei b-side registrati negli scantinati degli squat di Alphabet City.

Giungi all’escalation finale di “Final Backward Glance” pensando di come quel crescendo sia il finale di un’intera carriera, storia e, non mi vergogno a dirlo, una lacrimuccia può scendere senza alcun problema. Le venature dei Bane compaiono tutte. Riconosci all’istante quell’urlato a squarciagola di Bedard, così caratteristico e elettrizzante che non conosce pause. Martella concedendosi dei break solo quando fanno capolino le gang vocals qua e là, come se si fosse all’interno di una grande festa, fra amici. E di amici ne compaiono in “Calling Hours” fra l’insegnante Pat Flynn (Have Heart, guarda caso !), la dolce Reba Meyers che nei Code Orange Kids la si conosce nella sua veste più arcigna e isterica (qui s’avvicina di più all’attitudine del side project Adventures), Delgado dei Rotting Out, Wood dei Terror. Una celebrazione, in parole povere. L’altro Aaron, Dalbec, alla chitarra insieme al fido Zach Jordan sciorina riff come Dio comanda. Incisivi, graffianti che rimangono subito in mente, ti s’imprimono facilmente e scordarseli è quasi impossibile. Beh, poi c’è il marchio di fabbrica di casa Bane. Le armonizzazioni, i rallentamenti, le melodie e gli arpeggi che metton in luce il lato intimista dei Nostri. Ascoltarsi “Wrong Planet” e rimanere incantati dall’ipnotico incidere, da story teller di Bedard dove narra di drammi personali trascinando il resto della band con lui. Ma non è finita qui si sconfina in ritmiche thrash, “What Awaits Us Now” ha il sapore di certe sfuriate crossover thrash alla DRI o Cryptic Slaughter. Linkovich (basso) e Mahoney (batteria) non son gregari, ma dettano il ritmo, il rollercoaster d’emozioni è anche merito loro che scandiscono l’incidere con precisione e scelte stilistiche di buon gusto creando un sound cangiante, pronto ad esplodere da un momento all’altro oppure ad acquietarsi per un headbanging in cui tutta la tensione nervosa può esser rilasciata.

Un tragitto nella quale Bedard impregna il sound con una nostalgia non indifferente, non può essere altrimenti. Con una sincerità e onestà disarmante, ricordando un amico suicida o le difficoltà quotidiane che posson pesar come macigni, un vago senso d’amarezza nel non voler invecchiare, rimaner giovani leoni rampanti della scena hardcore, il tutto con un’impronta positiva. Come direbbero i Converge “Keep shining on”. Cicatrici, ferite che si rimarginano lentamente combattendo per la propria identità, senza dimenticare chi si è realmente. E allora c’è il fluire degli anni nei Bane, spesi in tour, in studio, per la strada, partendo da Worcester, lì dove tutto è iniziato. Il minimo che dal mio MacBook (in attesa di esser lì, in prima fila, sotto i balletti quasi hip-hop/rap di un Bedard scatenato sul palco) posso fare è piazzarli cinque stellette e ringraziarli per la musica che hanno creato un’ultima, grande volta con questo “Don’t Wait Up”.
 

“This is my final backward glance, I've never been much good at saying goodbye. Goodbye.”

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