Non mi importa il fatto che la musica non sia altro che un'onda e che i suoi effetti psicotropi derivino dalla capacità da parte del nostro cervello di “sintonizzarsi” sulle medesime frequenze delle suddette onde, le quali riescono così a renderci vispi e attenti se ascoltiamo un pezzo dei Prodigy oppure rilassati qualora fossimo cullati da delicate melodie new age. Non metto in dubbio la scienza ma faccio finta di non sapere, mi piace pensare che la musica sia uno strumento divino in grado di percorrere tutte le nostre membra e di rivestirci di grazia. Tanto molte cose non le potrai mai spiegare. Per fortuna.
La magia non serve cercarla distante, a volte basta gironzolare per il Trevigiano, fare tappa a Caerano San Marco e scoprire un gruppo di menestrelli (in lombardo “barbapedana”, appunto) che incide in formato digitale secoli di sapienza e mos maiorum delle popolazioni nomadi dell’Europa orientale. Come alchimisti alla ricerca della pietra filosofale i nostri hanno saggiamente fuso in un grande calderone suoni, atmosfere, sapori kletzmer, balcaniche e zingare, forgiando così un prodotto intenso, prezioso, etereo, extraterrestre. Potenza della Magia della Musica.
In "Yol" i Barbapedana si affidano per la prima volta completamente a questo genere, tralasciando il folk nostrano che fino ad allora li aveva ispirati. Il risultato è quasi un’ora di estasi allo stato puro: le entusiasmanti melodie di violino e fisarmonica ti avvolgono anima e corpo e ti cullano procurandoti un urlo di gioia pari a quello che Sandro Penna aveva sentito guardando il mare calmo e azzurro, ma questa volta l’emozione dura ben più di un attimo!
Il primo brano, "Opa Tzupa", è forse il più “commerciale” dell’album: un vorticoso giro di violino alla Modena City Ramblers vecchia maniera, che ti risveglia l’innato istinto che spinge l’uomo a ballare per liberarsi dalle preoccupazioni.
Ma la magia vera propria inizia con il secondo brano, "Maiko Maiko", strumentale, dove l’iniziale delicatissimo arpeggio di chitarra sfocia in una seconda parte maestosa, in cui l’archetto del violino danza vorticosamente tra le quattro corde.
Da qui in avanti è un fiume in piena: la Musica ti colpisce e ti trascina via verso la sua strada (“yol” in turco significa appunto strada); difficile e inutile riuscire ad afferrarne l’essenza: si commetterebbe un peccato di hybris verso quella che è la regina delle arti.
Forse l’unico difetto del disco è l’eccessiva ripetitività dei suoni, la quale però contribuisce comunque a creare quello stato di entusiasmo sul quale ho disserito abbondantemente in precedenza. Forse troppo abbondantemente. Forse ho esagerato. Forse il vero difetto del disco sono io, che mi illudo di poter descrivere la Musica scrivendo uno sproposito di puttanate. Chiedo perdono.
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