Il caro, vecchio Bukowski non ha mai avuto l'occasione di assistere ad una seria, decente e coerente trasposizione filmica delle sue illustri opere, se non a qualche blando schizzo d'ingraditudine e di faciloneria cinematografiche. Troppe, difatti, sarebbero state le tentazioni pseudo commerciali di ridurre il mitico Henry Chinaski a un barbone-ubriacone qualunque, principe della sbornia, marchese della lordura e duca della disoccupazione volontaria, consapevole e intenzionare. Detto questo, nel 1987 il vecchio sporcaccione, reduce da una vita di alcoliche - tuttavia creative e artistiche - gozzoviglie, si apprestò a vestire i temporanei panni dello sceneggiatore e a plasmare la Sua opera filmica, la Propria creazione su pellicola. Barfly, diretto dal francese Barbet Schroeder e cooptato nella produzione nientepopodimeno che da Francis Ford Coppola, non è altro che il sunto audiovisivo di tutto il curriculum bukowskiano, gran calderone che ha miscelato le suggestioni dei romanzi tout-court (Factotum...), come pure le disavveture etilico-erotiche delle raccolte di racconti (Storie di Ordinaria Follia, Taccuino di un Vecchio Sporcaccione...).
Fornire un giudizio anche sommario di quest'opera non è un lavoro semplice, immediato e automatico e ciò lo si evince anche dalla trama poco impegnativa e altrettanto reticolata: Henry Chinaski, l'eterno alter ego dello scrittore - interpretato da Mickey Rourke - è l'antieroe per antomasia, la perfetta riproposizione umano-fotografica dell'analogo letterario, un omuncolo scapestrato in perenne preda ai fumi del vino e dei forti alcolici che puntualmente si diverte a fare a botte con il barista Eddie; una sera, presosi la rivincita su quest'ultimo dopo una predecente batosta terrificante, Henry conosce Wanda, ubriacona additata dai convenuti del locale come "pazza", e con essa stringe una sorta di relazione amorosa (naturalmente condita dalla fatiscenza degli appartamenti, dalla malavita di contorno, dalle irrinunciabili bottiglie e dalla cronica-congenita mancanza di un impiego); la bizzarra vita di coppia tra i due viene tuttavia interrotta dal sopraggiungere di Tully, giovane ed avvenente azionista di maggioranza di una rivista letteraria cui Henry invia periodicamente i suoi racconti, la quale gli propone un assegno di 500 dollari e una vita da borghese nuova di zecca; Henry, passata una notte con la signorina, rifiuta questo incredibile balzo sociale e torna da Wanda, senza comunque assistere al zuffa di quest'ultima (che difatti aveva subito annusato la tresca del compagno) con la prima e accingersi a menare le mani con Eddie per l'ennesima volta.
Barfly, occorre dirlo, non riesce a elevare filmicamente all'unisono le vette insuperabili del Bukowski scrittore, seppur avallato dallo stesso artista, eppure è in grado di regalare un prodotto coerente, gustoso, pepato, adeguatamente commerciale, impregnato di una sufficiente dose dello spirito "libresco" e con qualche guizzo malinconico-romantico assente nei volumi tuttavia non in conflitto con il background dominante. Chinaski è peraltro impersonato da un attore di notevole caratura artistica, Mickey Rourke, che sa esattamente come indossare (in senso anche figurato) i panni del protagonista: lordo, claudicante, capelli mediamente lunghi e unti, viso truce e inquisitore piuttosto segnato dalle botte e dal vino, ghigno beffardo, voce rauca e demoniaca (adeguato pure il doppiaggio nella nostra lingua patria), il Rourke-Chinaski si addentra con rara perfezione dello squallore dei bassifondi losangelini e fa breccia con estrema disinvoltura nella sporcizia antiborghese e anticapitalista dell'America che non sorride alla bandiera stelle&strisce. Oltre alla magistrale interpretazione del "princeps" della saga, il film pure rifulge per l'ottima ricostruzione dell'ambiente, della sozza metropoli silenziosa, delle piccole e insignificanti alcove dei bicchierini e dei boccali (con altresì un frizzante design al "Roxy Bar" dei nullatenenti-facenti).
Adiacente ai piatti forti di Barfly ci sta pure qualche portata amarognola e insipida, in primis la trama (forse un po' troppo risicata e ristretta se paragonata alle vicendevoli peripezie elencate nei romanzi e soprattutto nelle raccolte) e il mancato sviluppo della timida componente romantico-amorosa avviata con la procace Tully, frettolosamente scivolata via dopo la zuffa con la rivale. Manca, infine, il tradizionale e iper-classico duopolio alcool-disoccupazione: è vero che l'inattività di Chinaski e company rappresenta il corollario di interpretazione del film, tuttavia non sono state inserite scene di fallimenti impiegatizi, licenziamenti-lampo, liquidazioni elargite a pochi giorni dall'assunzione, vani colloqui e, primus super partes, la congenita avversione al degrado della catena tayloriana-fordista, ovvero la nauseante catena di montaggio responsabile di tante degradazioni uomo-automa.
Chi l'avrebbe mai detto: Charles Bukowski, solitario ubriacone con pochi soldi, nessun lavoro fisso e tantissime idee su carta, scrittore maledetto proficuo, poi sceneggiatore nella Hollywood del lusso e dello scintillio ultraborghese e semi aristocratico. E con Barfly, pur dando un contentino agli studios bramosi di trasmettere al popolino pro blockbuster perversione, lussuria, degrado e decadentismo filo-crisi, ha fatto un ingresso sui modi nel verde altolocato della città degli angeli, giammai rinnegando gli "alcolici" trascorsi del dirty dandy per antonomasia.
Carico i commenti... con calma