Lo so, lo conoscete tutti, e più o meno lo amate tutti (almeno, credo). Mi premeva intavolare un discorso (sarò breve) su ciò che fu il cinema americano degli anni Ottanta, e cosa fu quello del decennio successivo figlio (degenere) del precedente. Voglio dire: quali furono i film che trionfarono agli Oscar negli anni Ottanta? Ne cito tre esempi, a mio avviso speculari: "Gente comune" (1980); "Voglia di tenerezza" (1983); e, appunto, "Rain Man" (1988). Sono tre film diretti, nell'ordine, da due registi esordiente (Robert Redford; James L. Brooks, più famoso quest'ultimo come il produttore de "I Simpsons") e Barry Levinson, autore mainstream al suo sesto opus dopo alcuni discreti successi ("Il migliore", 1984; "Piramide di paura", 1985) e un botto trionfale ("Good morning, Vietnam", 1987). Il terzetto delle succitate opere aveva un punto in comune: il mix, quasi insopportabile, di risate, lacrime, divertimento e commozione. Come se quel decennio edonista e spendaccione non fosse davvero inquadrabile: gli anni Sessanta furono gli anni dei cambiamenti epocali; i Settanta quelli del riflusso, e gli Ottanta? Un mix indecifrabile di stili e sentimenti.
"Rain Man" fu un successo esagerato, uno di quei film che tutti dovevano andare a vedere e dovevano elaborare. Sapete no?, tipo cosa ti sei perso. Infatti non se lo perse nessuno. Fece diventare di comune nozione il concetto di autismo, fino ad allora piuttosto oscuro. Ora, l'autismo non è quello che si vede nel film e gli autistici non sono tutti dei geni della matematica tali da poter sbancare un casinò, ma questo pensò, all'epoca e per molto tempo, la maggior parte di chi vide il film. Già questo non me lo rende simpaticissimo (conosco i bambini autistici, ho lavorato per, e non con, loro e so di cosa parlo) quindi al di là di tutto è un film a cui non appiopperei mai la medaglia di capolavoro. Però è senza dubbio ben fatto, ben diretto (diciamo diretto ordinariamente, Levinson più che sull'insieme si concentra sugli sguardi dei due protagonisti, impaurito di perdersi anche una sola, misera, alzata di sopracciglio), Tom Cruise se la cava, Dustin Hoffman è bravissimo, alcune sequenze sono divertenti e funzionano e il finale, girato alla "disperata" visto che l'intera produzione si svolse durante il maggior sciopero di sceneggiatori visto in Usa è azzeccato nonostante, appunto, il film tecnicamente non avesse un finale scritto.
Avrebbe dovuto girarlo Spielberg (sarebbe stato più bello?), e gli attori, in origine, sarebbero dovuti essere Bill Murray nei panni del fratello autistico e Dustin Hoffman in quelli dell'altro fratello, diciamo "sano". Poi, dato il successo di "Top Gun" di due anni prima venne scritturato Tom Cruise e, forse, la scelta fu migliore. Passarono alla storia le scene al casinò, la voce improponibile di Valeria Golino e il bacio umido (citato pure, anni dopo, in "Harry Potter e l'Ordine della Fenice"). Vinse 4, pesantissimi, Oscar (miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista, miglior sceneggiatura originale) nell'anno in cui Barry Levinson soffia l'Oscar alla regia al Martin Scorsese de "L'ultima tentazione di Cristo" (roba da matti!).
Un mix piacevole, due ore, diciamo, non buttate. Cinema da box-office, con qualche bella intuizione autoriale. Ma questo cinema amorfo degli anni Ottanta, questo cinema commerciale che si produceva in quel periodo, quel cinema che comunque ancora oggi stimiamo (forse anche vista la pochezza del poi), fu vero cinema o fu solo un mix di furbizia e piacioneria?
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