Sospeso tra il clangore degli United States of America e il Solenne Silenzio. Strano posto, il Canada. Una landa sterminata abitata da un ristretto manipolo di anime, poco più di una comitiva, tutti ammassati a sud. Sopra di essi, il nulla, o meglio il tutto: monti, foreste, infiniti laghi a fare da interpunzione, e più su la tundra, che si abbarbica sino ai ghiacciai perenni. Naturale che oltre a regalarci legname, tende da campeggio e ottimi giocatori di hockey, questa terra sia gravida di musicisti dalla raffinata, sinusoidale sensibilità.

Nel 1995 Michael Findlay va incontro al suo sogno: coniugare la passione per la musica a quella per la poesia. Da sempre il cantautorato indie-pendente è la soluzione che meglio si attaglia a codesti spiriti inquieti. Bene, peschiamo allora una coppia di esseri lacustri, Suzanne Hancock e Tony Dekker (ah, i mai troppo lodati Great Lake Swimmers), e diamoci dentro, dove dentro sta per dentro, inside, nelle viscere. E qui fu Barzin.

E via a rintracciare gli spettri dei più ispirati songwriters, echi di Nick Drake tra gli antri dei Red House Painters, le rarefazioni dei migliori Tortoise, Smog tutto attorno. Ma anche no, meglio di no, torniamo a Barzin medesimo, bendarsi e gettarsi nel suo abisso, ma tranquilli, c'è il morbido laggiù. "My Life in Rooms" è costruito per aria, diafano. Commuove come solo ciò che è fragile. Contrazione ed espansione, perchè se ti raggomitoli torni al feto, l'origine di tutto.
Implosione, e stomaco che duole. Credetemi, volevo dire tanto, narrare di come Barzin sia ormai autore di culto, raccontare dei magnifici testi, strapparmi dalle budella tutto ciò che mi genera dentro un disco del genere e porgervelo su un piatto, ma ascolto il disco, e mi tremano le ginocchia.

Mi faccio da parte, e Barzin sussurra: "It's always/leaving time".

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