Ogni genere musicale ha i suoi eroi. E Ace Borje Thomas Forsberg, in arte Quorton, è indubbiamente un eroe del metal. E tanto più degno di rispetto quanto la sua vita artistica si è svolta lontano dai riflettori, in solitudine, al chiuso del suo piccolo garage, fra detersivi e ricambi di auto, squallido scenario in cui sono state scritte invero pagine importantissime della storia di un genere artigianale quale è il black metal.

Si fa presto a creare un mito, soprattutto se si parla di un defunto (ricordiamo che l'esistenza su questo mondo di Quorton si è bruscamente interrotta nel 2004, a soli 38 anni, per un improvviso arresto cardiaco), eppure è impossibile non riconoscere i meriti di un musicista che, oltre ad aver confezionato album di indiscutibile valore (io conto almeno cinque capolavori), ha saputo precorrere i tempi, trasformare le sue pulsioni estremiste in gesta di pura avanguardia (sempre parlando di metal), cambiare continuamente pelle nell'assoluta coerenza del suo modo di essere schivo, al di fuori delle mode, nell'ottica di una maturazione artistica che è anzitutto maturazione dell'uomo e dell'individuo.

Fiumi di parole potrebbero essere spesi, e mai inutilmente, per un'entità come Bathory, che con i primi tre album ha rappresentato l'incarnazione più malefica e morbosa di un modo di intendere e fare musica estrema, e con quelli successivi ha saputo emanciparsi dai cliché stilistici da essa stessa creati, per evolversi in una forma più meditativa ed atmosferica, in anni in cui il metal spingeva in avanti i limiti dell'estremo con la nascita del death metal e soprattutto del grindcore.

"Blood Fire Death", quarta release della band, esce nel 1988 e costituisce il punto di snodo in cui le due forme si toccano: l'apice formale dell'intransigenza sonora dei primi lavori, e la base di partenza per le sublimi sonorità sapientemente sviluppate ed esplorate nei capolavori della maturità “Hammerheart” e “Twilight of the Gods”.

La svolta, seppur repentina, non è comunque un fulmine al ciel sereno, e trova origine, seppur a livello embrionale, nel precedente (altro, ennesimo capolavoro) “Under the Sign of the Black Mark”, e più precisamente in un brano dalle fattezze di “Enter the Eternal Fire”, che nei suoi quasi sette minuti aveva dilatato il velocissimo thrash metal degli esordi nel passo cadenzato di una epica cavalcata dall'indubbio “gusto melodico”, se di melodia è lecito parlare.

Proprio da qui si riparte per confezionare un'opera che, pur conservando il sound muscolare ed oltranzista del passato, veste un'armatura finalmente professionale, sa procedere con maggiore ordine, mostrando al contempo i primi segnali dell'incombente emancipazione da quel proto-black metal talmente avanti che dovrà ancora essere metabolizzato, concettualizzato e ripreso dalla generazione di musicisti appartenenti alla decade successiva.

Quorton guardava già oltre, era già avanti rispetto ai suoi discepoli. Basti guardare a come l'album muove i primi passi. Il sibilare del vento, il nitrire di cavalli, lo scalpitare ovattato di zoccoli, evocativi scenari sinfonici a fare da sfondo: “Odens Ride Over Nordland” è un'introduzione atmosferica che inaspettatamente avvolge l'ascoltatore e lo catapulta nei cieli fantastici e leggendari ritratti nella elegante copertina. La chitarra acustica e le voci straordinariamente pulite che aprono la monumentale “A Fine Day to Die” fanno il resto: è palese fin dall'inizio l'intento di abbandonare definitivamente le tematiche sataniche che avevano caratterizzato le prove precedenti per abbracciare in toto la trattazione di miti e leggende dell'antico Nord, altra grande novità, forse la fondamentale novità dell'album. Poiché l'artista svedese è davvero il primo a percorrere una strada che riscuoterà un tale successo fra gli addetti al mestiere tanto da dare i natali ad un nuovo genere, il viking metal (etichetta che non ho mai amato particolarmente).

Rimane la radicalità di una scelta che rompe con una tradizione consolidata nel metal estremo di quegli anni che, in linea con il rock di circa vent'anni prima, aveva amato celebrare il Diavolo quale simbolo di trasgressione, degenerando presto in una mascherata carnevalesca e puerile, irrisa da più parti (moda ancora in voga nel terzo millennio, e chissà come se la ride oggi il buon Quorton, osservando croci rovesciate e pivelli in mascara, lassù sul Valhalla dei maledetti del rock, bevendo birra assieme a Jimi Hendrix e Jim Morrison).

La scelta operata a livello tematico è quindi il guizzo vincente di questo album che, al di là dell'indubbia bellezza dei suoi pezzi, conserva le forme e le movenze del thrash metal degli anni ottanta: un thrash ovviamente sfigurato dalla rozzezza di chi dispone di una povera e rudimentale strumentazione ed è sprovvisto di tecnica sopraffina (ma dotato di passione, creatività e tanto, tanto cuore!).

Di black metal ce n'è ancora molto: c'è il latrato stridulo, sgraziato e terrificante di Quorton, che continua a dare sfoggio delle sue doti di non-cantante, come del resto non mancano momenti di claustrofobica e mistica velocità in cui la batteria picchia all'impazzata trascinando una chitarra ipnotica che si reitera scavando abissi nell'inconscio dell'ascoltatore (si guardi alla parte finale di “Holocaust”). Non solo: gli affilati riff animati da un'irruente baldanza epica e il tintinnare dei piatti che scandiscono leggendari tempi medi, sono elementi che spesso ritroveremo nei lavori della gloriosa scuola norvegese degli anni novanta. E poi l'atmosfera che pervade tutti gli otto pezzi, edificata a suon di sontuosi tappeti tastieristici, ispirati interventi di chitarra acustica ed un misurato uso di voci pulite.

La già citata “A Fine Day to Die”, che si apre come una fosca ballata crepuscolare, fa presto a tramutarsi in un mostro metallico che nell'arco dei suoi otto minuti e mezzo ha il pregio di passare in rassegna la nuova visione artistica di Quorton, sospesa fra violenza e pathos (si veda l'intermezzo acustico che irrompe nel bel mezzo del brano, uno squarcio di luce nelle tenebre, un'improvvisa apertura melodica dove tornano a riecheggiare le tastiere ed il nitrire dei cavalli che avevano aperto il pezzo).

I brani che seguono sono mazzate vecchio stile, dove ben poco è concesso alla melodia, ma che fanno comunque registrare una minor foga di spaccar tutto, ed un discreto accrescimento tecnico nel maneggiare i diversi strumenti (ricordiamo che, nonostante nella foto del booklet interno piaccia a Bathory apparire come un fiero terzetto di vichinghi armati fino ai denti ed intenti a spendere grandi fendenti con il loro spadoni nella nebbiosa vegetazione di una foresta scandinava, tutta la musica è come sempre composta e suonata dal solo Quorton). Fra questi pezzi, che oserei definire assassini, cito le superbe “For All Those Who Died” e “Dies Irae”, che certo faranno scuola negli anni a venire: la prima per il suo riffeggiare che, seppur quasi sabbathiano, si mantiene sporca, carica di pathos e spietata nel suo incedere; la seconda per la ripartenza dopo il break sfrigolante di chitarre, che smorza i toni verso un metal marcio e decadente, come la migliore tradizione black-metal saprà accogliere e codificare.

Ma è indubbio che gli elogi più sperticati debbano essere spesi per la maestosa title-track, che nei suoi coinvolgenti dieci minuti da un lato anticipa quella che poi sarebbe stata la prossima evoluzione della band, e dall'altro spiana la via a nuovi mondi musicali. In questa fiera cavalcata c'è davvero tutto: potenza, melodia, epicità, tanto che pare resuscitare, in una forma più elegante e ragionata, i fasti della venomiana “At War with Satan”. Che fantastiche visioni, che mondi infiniti è capace di evocare questo piccolo uomo seduto sulla sua piccola seggiola, a sgolarsi e maneggiare maldestramente la chitarra dal suo piccolo scantinato stracolmo di chincaglieria, dove a mala pena la strumentazione poteva trovare collocazione.

Questa si chiama arte, e Quorton, a prescindere da tutto, rappresenta una delle espressioni più genuine ed ispirate del panorama metal di sempre: autentico “cantautore dell'Estremo”, Quorton ha saputo cavalcare il Limite della musica, addomesticare demoni terribili, fino a superare il Limite stesso, travalicare i generi, tracciare nuove vie e rimanere se stesso.

Impresa concessa solo a pochi eletti.

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