“Scusi, per il successo?”.

“Da quella parte”.

“Bene, allora noi andiamo dall’altra”.

C’è chi sceglie la strada più difficile fin dall’inizio. Succede quando la line up diventa un puzzle e quando, per ottenere esattamente ciò che si vuole, si costruisce e distrugge a più riprese una band a partire dal 1986, per debuttare solo nel 1990. Si potrebbe dire che la peggiore umiliazione per dei geni è quella di essere compresi. Ma bisogna fare un minimo di lavoro critico e constatare che, seppur i nostri louisiani siano praticamente passati inosservati nella scena hard rock 80 / 90 (con "Shake Your Soul", solo 160° posto nelle charts americane), il disco di cui vi sto per parlare è la cozza che contiene la perla per intelligenza compositiva e per l’incredibile calibrazione di alcune determinate influenze musicali, che addirittura arrivano a diventare modulari e quindi componibili di volta in volta, come i famosi mobili svedesi.

Brutto fuori, incantevole dentro. Nati in Louisiana (e secondo me questo è già quanto dire, perché la musica della band è notevolmente calda e per nulla shock) nel 1987 i Baton Rouge si trasferiscono a Los Angeles e iniziano la lunga gestazione di questo album passando attraverso numerosi ed evitabili problemi. Nonostante questo, i loro show live gli valgono un contratto con la Atlantic e, sotto l’egida della major, hanno l’opportunità di lavorare con gente di calibro per la scrittura e la produzione del loro esordio.

Di cosa si tratta. Nonostante la data d’uscita (ripeto, 1990), "Shake Your Soul" è un disco decisamente anni 80 di quello che si potrebbe definire big rock. Il piatto caldo, piccante e decisamente invitante che i cinque andati in studio (capitanati dallo strepitoso Kelly Keeling, voce e chitarra) hanno preparato è composto rigorosamente da tre semplici ingredienti diversi ma che uniti hanno dato un grosso risultato a sorpresa. In pratica, la base ritmica proposta da basso, batteria e chitarra è marcatamente street, il cantato è chiaramente impostato su toni hard rock, mentre bridge e chorus, cesellati da tastiere al vapore, raggiungono altissimi livelli pop/aor per un complesso di suoni che inevitabilmente si tramuta in un arena rock che dove passa lui, non cresce neanche un filo d’erba. Come avviene per tutte quelle opere che vengono rivalutate dopo un bel po’ di tempo, anche in questo caso ci sarebbe da fare un po’ di revisionismo storico e artistico. Sicuramente i tempi non sono ancora maturi ma metto mani e disco avanti, cercando di rendere omaggio ad un’opera che, chi è interessato ad ascoltare qualcosa di diverso, dovrebbe procurarsi immediatamente.

La voglia di mettersi in prima fila c’è tutta e si parte con un colpo basso a discapito delle band che, in una forma o nell’altra, in quegli anni praticavano hard rock melodico: opener dell’album è "Doctor", auto evidente dimostrazione del teorema espresso nell’ultima parte di testo scritta in grassetto. La provenienza geografica della band già si sente tutta. È notevole la distanza compositiva e il calore realmente umano che i nostri riescono ad esprimere rispetto ai gruppi dell’area nord atlantica e canadese, tecnicamente emancipati come pochi, ma brutalmente freddi. Tra giochi e acrobazie musicali, il primo è un pezzo a bruciapelo che, fra propulsione e ammiccamenti, manifesta ottimismo a cavalloni. Il songwriting, per questo livello musicale, è sicuramente banaloide ma poco importa. Almeno per chi non è madrelingua.

Si prosegue e si fa la scia del grande rock con "Walks Like A Woman", di nuovo coinvolgente al massimo, di nuovo impossibile non cantarla a squarciagola. "Big Trouble" è il rock 80 dall’inizio alla fine. E chi la conosce o la ascolterà, non potrà che convenire. Con "It’s About Time" si pratica la grande via dell’AOR sceso in territori dove non è consuetudine, ma che trova un’interpretazione che sa di omaggio al genere. Su "Bad Time Comin’ Down" c’è la certezza di essere all’ascolto di un album fenomenale, che regala inni da stadio e pollici alzati in rapida successione. L’arpeggio al minuto di "The Midge" segna la malinconica fine del primo tempo.

Ma si riprende subito a spron battuto sul divertentissimo rock festeggiante di "Baby’s So Cool", fortemente consigliato per chi organizza casino a casa. Da qui in poi, sul totale di 12 tracce, molti gruppi hanno steccato proponendo brani abbastanza mosci per riempire il barattolo. Con i Baton Rouge, logicamente, tutto questo non succede e il debut album raggiunge il massimo della proposta incasellando tre successi memorabili come "Young Hearts", inchiostro indelebile sottopelle, "Melenie", aor di lusso e lucidato da uno sciuscià di professione, e "There Was A Time (The Storm)" che colpisce fatalmente al cuore, segnando un solco di epicità nelle tracce di questo sbalorditivo album. A chiudere ci sono "Hot Blood Movin’" e "Spread Like Fire", rockoni che sanno di bolla papale per la chiusura solenne di un capolavoro dal sapore di ossimoro. Un dimenticato indimenticabile.

Sfortunato, in pratica, per essere uscito tardi e in un periodo di sovraffollamento di band, e per aver conosciuto l’ultimo anno di successo limpido di un rock morto per fattori estrogeni subito dopo. Il consiglio di chi scrive è: ascoltare senza pregiudizi.

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