Tyondai se n'è andato e non ritorna più. Si sente che se n'è andato? di certo. Ma non credo di poter dire che i Battles abbiano perso alcunchè, anzi. Nonostante per stessa ammissione della band si sian dovuti sbattere da matti per ricoprire il ruolo che il buon TY ricopriva, pare se la siano cavata egregiamente.

Loop station e ammenicoli vari sparsi su tutto il palco/dentro lo studio/nelle nostre teste. E il risultato è questo folle dischetto. E' più bello di "Mirrored"? Neanche per il cazzo, ma sono creature differenti e splendono ognuna di luce propria. Si parte con la melodia radiomodificata proveniente da chissàquale spaziotempo di "Africastle", i riff di chitarra spuntano ad un certo punto e sono incalzanti e imbastarditi, e il buon John Stanier si mette sotto con il suo drumming Helmettiano a servizio di un groove a metà fra spezzato e granitico, "hc" e danzereccio. Tutto e niente. Cambiano le carte in tavolo, ad ogni pezzo un universo differente. A fare le veci, per modo di dire, di Ty nel primo singolo estratto Matias Aguayo, che tira dritto, dopo aver ingarbugliato il vilo della voce sulla chitarratastieraemersonlakepalmeriana di Williams, è una chitarra? Sì, parola sua! i veri Donacaballerismi si districano su "Futura", che incastra perfettamente loop elettrospastici e suonato devastocratico, melodie stridenti, saltellato obbligato!

Reminescenza di "Mirrored" è la centellinata "Wall Street", chiudi gli occhi, vedi il brulicare dei broker impazziti, i numeri che scorrono sulle tabelle, genesi di elettrosintetizzatori chitarristici circolari nelle menti della compravendita allucinogena, una pausa, campanelli, legnetti, fischi, i broker sono immobili, ma tutto crolla in un secondo. Mastro Gary Numan decide di comporre con pezzi di metallo lucente le "My Machines", un basso fuzzstardo imperversa ovunque. La soave delicatezza ipnotica di Kazu "Blonde Redhead" Makino, aiuta gli interminabili loop a creare una strada sul sentiero di Oz del maligno sintetico. "White Electric" è lo spazio siderale che si palesa in solchi industriali attraverso la sei corde di W., e va a sbattere sulla cassa di granito di S., un crescendo disperato che si apre in devastazioni a cielo aperto, fino ad una melodiaperbambini che ci mette tutti nella culla in attesa della buonanotte, la ninnananna stralunata e stonata di Yamantaka Eye su "Sundome" ci ripaga del cammino nella malattia, una dancehall nello spazio, lontana, che arriva al nostro letto soffusa, e ci chiediamo se sogneremo il Giappone feudalelettronoisico Boredomiano o una Giamaica ubriaca di fumi sintetici.

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