Tanto per cominciare, mi rendo conto che la buona creanza vorrebbe che non si parlasse d'un disco che ancora deve vedere la luce, ma tant'é, se proprio questa cosa vi rimane sullo stomaco, provate a inghiottirla come un preambolo a una recensione come si deve o conviene che, non vogliatemene, non sarò io a fare.
Gironzolando finisco un paio di giorni addietro sul sito dei Battles, rimango un poco stranito dalla copertina, ascolto il pezzo ascoltabile di rito, Ice Cream. Mi piace, ha un bel tiro. Ci sono il 15 a milano. Non resisto alla tentazione, cerco un link amico e scarico "Gloss Drop" (Warp, 2011) per intero.
Il caso vuole, ammesso che il caso possa volere, che tra la manciata di link che m'occorre per tirar giù pure la copertina escano i soliti sentieri che portano a forum musicali d'gni risma, e buttandoci un occhio non posso che rammaricarmi alla notizia che, per dirla col brizzi letto da sbarbo, Tyondai Braxton ha lasciato il gruppo.
Che dire. A torto o ragione, il disco è criticato più o meno aspramente in ogni dove. Al primo ascolto è l'amaro in bocca per quel che poteva essere e per quello che invece non sarà mai. I numerosi commenti, sacri o profani, si spingono financo al mettere il caro Williams alla gogna, ipotizzando che come il successo dei Battles è imputabile a Braxton quello dei Don era appannaggio del buon Damon Che, e leccando pure la tesi che, chissà, la bontà degli S&S fosse in fin dei conti merito di David Shea...
Senza nulla togliere né al buon Damon Che né tantomeno al genio di Braxton (due musicisti della quale ho amato ogni progetto), direi che, benché il mio non sia l'orecchio fine d'un intenditore, il povero Williams dovrebbe, per esacerbare il concetto, godere delle migliori figlie delle generazioni a venire.
Dopo qualche giorno d'ascolto quel che posso dire con certezza è che si tratta d'un disco dei Battles e punto, e che dunque rispetto al precedente il genere, o meglio il non-genere, è il medesimo. Se dovessi battezzare il lavoro sia di William, benché sia un termine che forse s'addice di più a Braxton, adopererei il termine "apprendista stregone". Se già dal primo pezzo, Africastle, si sente la mano di quest'ultimo (abbia lavorato direttamente al materiale del disco o sia solo influenza, non sarò certo io a dirvelo, ma così a naso propenderei per la prima), tant'è che alcuni passaggi suonano affini sia al recente "Central Market" che al vecchio "History..." d'inizio millennio.
Per quanto si senta la mano, nel bene o nel male, si sente anche la mancanza della voce onnipresente in "Mirrored" benché, sotto questo rispetto, i restanti moschettieri abbiano messo una pezza con delle collaborazioni piuttosto ben riuscite (Matias Aguayo, Gary Numan, Kazu Marino, Yamantaka Eye). Gli altri pezzi ricordano stringhe a metà tra "American Don" dei Don e "Under Thunder..." degli Storm, ritornelli strumentali che si rincorrono fino a creare i temi dei pezzi, loop mannari che aspettano la sera per aggredire e il giorno per perdere il pelo ma non il vizio di ammaliare chi vi presta orecchio, d'infilarvi quella pulce che vi farà dire che l'amate o l'odiate. La base ritmica, costipata come al solito, è un tappeto sul quale rotolarsi senza vergogna, senza la paura che il gallo canti tre volte nelle vostre orecchie da traditori di "Mirrored", senza la paura che il grillo parlante vi sussurri di scordare i fasti d'un tempo. Eppure, dannazione, anche senza la vocina della fatina Tyondai...
A questo punto fate voi. Fate voi innanzitutto una recensione competente, fatta da chi ha capacità, tempo e voglia d'informarsi come si deve e conviene. E fate voi anche la valutazione. Per buttarla sul ridere, dopo qualche giorno io sto aspettando di innamorarmi, e mi sento come ci si sente in queste situazioni, a metà tra la paura d'essere incapaci al lasciarsi andare, e quella di prenderlo nel sedere.
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