Due anni dopo il grande successo di pubblico e critica di “Amen” (Targa Tenco nel 2008) e un anno dopo la colonna sonora del film “Giulia non esce la sera” di Giuseppe Piccioni, tornano i Baustelle con “I mistici dell'Occidente”.
Il titolo dell'album – citazione (la prima delle tante all'interno del pout-pourrì postmoderno baustelliano) del libro omonimo di Elémire Zolla – ne indica il centro concettuale: se nel “Sussidiario illustrato della giovinezza” era protagonista un'adolescenza torbida e morbosa, qui è il distacco dalla realtà a far da padrone nella tessitura tematica (“noi ci salveremo disprezzando la realtà / e questo branco di coglioni sparirà”). La stessa copertina, che – citando quella più famosa del “Sgt. Pepper's Lonely Heart Club Band” - mostra i tre componenti del gruppo in compagnia di persone la cui identità non viene rivelata, contribuisce a creare un'atmosfera ermetica che non abbandona l'album neppure dopo diversi ascolti.
Si può parlare dunque di concept album? Non credo, non più di quanto se ne potesse parlare in riferimento agli album precedenti; lo stesso Bianconi in un'intervista afferma: “Io i concept album li ho sempre odiati. Roba da progressive rock, e neanche di quello buono” (sic). La tematica del misticismo si esaurisce – in senso stretto – in poche canzoni; in senso lato, permea ogni singola canzone, ma nello stesso modo in cui la crisi della società occidentale pervadeva i pezzi di “Amen”. Dunque, nessuna novità da questo punto di vista.

L'organo di “Indaco”, punteggiato da leggere pennellate di sintetizzatore, mostra due tratti caratteristici dell'album: innanzitutto il respiro “internazionale” dei suoni e della produzione, dovuto principalmente alla presenza del dublinese Pat McCarthy (già produttore di R.E.M. e U2); in secondo luogo, ahimé, una vena compositiva piuttosto stanca.
Ed è questo il difetto maggiore dell'ultima fatica dei Baustelle: le composizioni e gli arrangiamenti.
Per la verità, i secondi non sono mai stati particolarmente felici (in particolare l'uso quasi sanremese dell'orchestra in certi pezzi di “Amen”); ma uno dei punti di forza dei precedenti album era certamente la vena compositiva di Bianconi e Bastreghi che, pur nella propria ripetitività o banalità (banalità che a volte sconfinava nel kitsch più o meno voluto e divertito – ehi!, il kitsch È postmoderno!), era caratterizzata ciononostante da grandi incisività ed efficacia. Che, duole dirlo, sono sparite dalla maggior parte delle canzoni.
La strofa della title-track introduce un omaggio esplicito e sentito a De Andrè, portando poi a un classico ritornello slogan à-la Baustelle (“gentili ascoltatori, siamo nullità”).
Il secondo singolo pubblicato, “Le rane”, metafora dell'innocenza perduta, riporta i Baustelle sui binari del pop rock semplice e puro, fra uno special d'eccezione che cita Salgari e – purtroppo – una outro strumentale (altro marchio di fabbrica di quest'album) che appesantisce un buon pezzo; segue il singolo di lancio, “Gli spietati”, ben più godibile del precedente e con una coda à-la Battiato che dà un valore aggiunto alla canzone.
Il ritornello – credo – più liricamente infelice della storia del gruppo segna indelebilmente “Follonica”, una storia di sesso consumata su una spiaggia desolata del Mar Tirreno e descritta con un'attenzione particolare per una quotidianità avvilente, fatta di siringhe, profilattici e Tampax, inserita in un contesto marittimo e che vuole diventare una metafora dei due amanti, apatici eroi-dei della moderna società postindustriale.
Il Bianconi-vate de “La canzone della rivoluzione” cede poi il microfono a Rachele: “La bambolina” è il primo pezzo dell'album in cui lei è unica chanteuse; pezzo che musicalmente richiama “L'aeroplano” o “La canzone del parco”, ma che le fa rimpiangere per la banalità allucinante del testo, critica trita e ritrita delle ragazze plasticose da televisione.
Segue “Il sottoscritto”, che Bianconi ha introdotto in un live a Brescia come “una canzone d'amore come si facevano una volta” e introduce un'atmosfera che ricorda il romanticismo naïf de “La moda del lento”.
La conclusione viene affidata a Rachele con “L'ultima notte felice del mondo”, una ballad romantica in sei ottavi che alza decisamente il livello compositivo dell'album e fa rimpiangere la mancanza di altre canzoni “soliste” di Rachele.
Insomma, questo album non farà cambiare idea a nessuno: i fan ne saranno entusiasti (come ho avuto modo di constatare a Brescia) e i detrattori continueranno a denigrarli.
Una giustificazione per la qualità scadente di alcune canzoni dell'album? Il contratto firmato con la Warner pone una scadenza di 18 mesi entro i quali il gruppo deve consegnare il master finito. Major strikes again.

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