I Baustelle sono cresciuti. Ormai non narrano più di adolescenti alle prime armi con il sesso, l’amore, l’amicizia, con la realtà sociale. Sono cresciuti e parlano di un mondo adulto, corrotto, non libero e spensierato come la giovinezza ma che deve sottostare a delle regole rigide, ferree. Ma spero che questo concetto di “crescita” non sia autoreferenziale in quanto incidere per una major comporta, prima o poi, dei compromessi e quindi, il più delle volte, porta a dei cambiamenti strutturali all’interno del gruppo che si possono rivelare dannosi per la musica che si vuol produrre.
Questa mia recensione arriva, purtroppo, in ritardo. Ho ascoltato e riascoltato questo nuovo album dei Baustelle (disponibile ad un prezzo ridotto) e, all’inizio, non mi convinceva (come non mi convincono ancora pienamente i primi due) o meglio, mi convinceva poco di più rispetto ai primi due. Ma questa è la bellezza del pop dei Baustelle. Non è un pop semplice, consumabile o che si può gettare da un momento all’altro. I Baustelle fanno musica pop di valore, consistente, dove i testi sono significativi, a volte duri, necessari, mai banali.
“La malavita” è una sorta di concept album che si apre con “Cronaca nera”, un pezzo strumentale che unisce musica da poliziotteschi anni ’70 con un sottofondo alla Battiato. “Cronaca nera” poi lascia spazio al singolo “La guerra è finita”, dalle sonorità anni '70/'80 (come del resto tutto il disco), che narra di una fine che può essere intesa come morte, come perdita della giovinezza, come abbandono di una delle molteplici realtà esistenti ("E nonostante le bombe, la televisione, malgrado le mine, la penna sputò parole nere di vita, la guerra è finita, per sempre finita, almeno per me"). Il viaggio prosegue con “Sergio”, forse unico momento poco riuscito dell’intero album soprattutto a livello testuale, “Revolver”, impavido ritratto di donna della mala. Poi d’improvviso l’ascoltatore viene catapultato verso la parte centrale dell’opera e si rimane affascinati da pezzi come “I provinciali” ma su tutti “Il corvo Joe” e “Un romantico a Milano”. “Il corvo Joe” sembra un canto disperato, pensato per Celentano ma cantata alla De André (notare la voce del cantante che riecheggia vagamente quello del grande cantautore genovese). Sembra un’accusa alla morale quotidiana della città vista da un personaggio privato di grazia, “tollerato” (secondo il significato pasoliniano) che, come primo e ultimo grido, lancia una bestemmia contro coloro che l’hanno da sempre perseguitato. “Un romantico a Milano” invece è una canzone dandy che parla di un dandy che, come Joe, rifiuta la realtà e tutti i suoi surrogati e, in questo caso specifico, rifiuta la vita della grande città (Milano), che rende anonimi, che riesce a donare solamente solitudine ma, allo stesso tempo, la ama.
Insomma “La malavita” è un’appassionata reazione all’omologazione, ad una volgarità brutale, figlia dello sviluppo ma non del progresso e i Baustelle sono bravissimi a far filtrare attraverso questi mini-racconti in versi sprazzi di quotidianità, modelli di vita condivisi dalla maggior parte della gente. È un album per riflettere ma è, allo stesso tempo, pop dove per “pop” si intende “leggerezza nel trattare argomenti seri, importanti, anche con una buona dose di ironia”. È un album che non lascia tristezza, per questo è pop, soddisfa, appaga, riesce a porre interrogativi, a tentare delle risposte. E, nel finale, emerge anche il verso d’ amore puro con “Cuore di tenebra”, tenera love-song che dona un alone di compiutezza all’intera terza opera baustelliana.
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