“Perché l'amore è negativo”. “Il vero amore ci distruggerà”. “Non appena incontrerai il Minotauro morirai”. “Un rivolo di sangue sulle labbra, due virgole di sperma sulla schiena”. “Cancellare in un colpo solo tutti i suoi messaggi per un errore madornale”. “Non ho capito niente dell'amore che finisce, in estate quanta merda secca al sole”.

L'amore nella violenza un anno fa, la violenza nell'amore oggi. Più che un disco gemello, un disco opposto e complementare, scritto dopo, un po' come reazione, un po' come tentativo di non lasciar andare un momento di equilibrio perfetto, sul crinale che separa esattamente le “croci lungomare” e il “fiorire di una rosa”, due campi semantici sterminati e scivolosi, perché da sempre molto frequentati. Bianconi ci ha preso gusto e in un gioco di macrotesti antitetici puntella il suo discorso su incipit, snodi e finali perfettamente dicotomici.

Al posto di “Love” c'è “Violenza”, a posto de “La musica sinfonica” c'è quella elettronica, al posto del re del cielo che scende a salvare la “Ragazzina” (che continua ad abbracciare il mondo che pur la faceva sanguinare), c'è Asterione, “Il minotauro di Borges” che attende la sua ancella sacrificale nel labirinto, vorrebbe parlarle ma non gli è possibile. Nella guerra del volume uno c'era un finale salvifico, perché “ci si abitua a tutto, alle bombe, alle stagioni, al calendario”, mentre nel disco dell'amore si scivola in un abisso infernale di incomunicabilità, in una “casa nascosta agli dei”.

Mai come in questo dittico di album, Bianconi ha lavorato sulla dimensione macrotestuale: i singoli brani presi singolarmente possono quasi sembrare innocui, si potrebbe credere davvero che queste siano canzoni d'amore. E lo sono, almeno superficialmente. Ma essendo fili di un ordito più ampio, ha poco senso valutarli e leggerli singolarmente. Come nell'altro, c'è una prima parte che postula un'ipotesi e una seconda che la ribalta, riverberandosi all'indietro; il male di vivere si risolveva in attaccamento alla vita, ora l'amore e il sesso si rivelano malati, morbosi, abbracci che sono autopsie, merda secca al sole: un labirinto di incomunicabilità.

Un disco scritto di getto, durante un tour particolarmente felice per la band, quello del 2017. Il primo volume risultava più calcolato, limato, una riflessione sul male del mondo e cionondimeno la filosofica ed esistenziale adesione a esso; questo è istintivo, febbrile, insistito (quante volte si ripete “baby”, “amore mio” eccetera?) eppure parimenti mediato, ragionato nei suoi esiti complessivi. C'è la voglia di provare e vivere sinceramente dei sentimenti veri, forti, dirompenti, e al contempo la ciclica caducità di questi: l'amore esiste solo insieme al suo concludersi. C'è l'attaccamento morboso a una “lei, vivi solo per lei”, ma poi compare anche la prospettiva opposta: “Perdere Giovanna, in un giorno di sole uguale agli altri, ritrovare la libertà”. Nell'euforia amorosa c'è la fine e nella fine c'è la rinascita, il dipanarsi di infinite nuove possibilità. Un serpente che si morde la coda, insomma.

L'amore è istinto, è carne, umori corporei come il seme che compare diverse volte. Ma l'uomo è anche altro, è pensiero e non solo istinto, e inevitabilmente si piega su se stesso, sul suo elucubrare. E allora gli abbracci si trasformano in autopsie, si perde una donna come un mazzo di chiavi, il parlare diventa impossibile. Dal tassello finale ci si guarda indietro: e a quel punto si notano i tanti dettagli cruenti che nell'euforia amorosa erano stati tralasciati: “Vedi la vita diversa con Veronica, credi che il vuoto di colpo sia bellissimo”, ma di vuoto pur sempre si tratta. “Lei vive per me, ma non sa niente della vita e del dolore”, e prima o poi lo scoprirà. “Amore è tardi, è già la fine... in questo regno di corone di spine”, la bellezza è già scomparsa quando ce ne si accorge. “Non hai niente di più, solo lei. Quando ti lascerà, dove andrai?”, una dipendenza pericolosa. O ancora, la dimenticanza: “Mi fai dimenticare di me stesso, mi fai sentire un essere migliore”. Insomma, anche la parte più inebriante e (apparentemente) positiva del disco (primi sette brani, esclusi gli strumentali) nasconde tante spine.

Musicalmente, il lavoro è splendido, meno "spigoloso" del precedente, con più chitarre, archi, suoni pieni e melodie slanciate. Vengono meno alcuni passaggi di canto paludato in favore dei vocalizzi intriganti di una Rachele Bastreghi in gran forma, ma anche Bianconi azzecca i timbri giusti, un po' nasali, meno liquorosi. Chitarroni ben ritmati, sintetizzatori colorati e tanti fini ricami (il flauto in “Perdere Giovanna”), oltre ai ritornelli felici come e più di prima, ne fanno un disco che scorre magnificamente, con intensità e fluidità. Una tavolozza sonora ricca, ma usata con oculatezza, misura e gusto estetico sempre più raffinato.

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