La verifica in sede live dell’ultimo disco dei Baustelle avviene per due differenti aspetti: quello dei testi è semplicemente frutto della decantazione di questi mesi, mentre quello degli arrangiamenti è particolarmente significativo perché al contempo ispessisce la convinzione dell’ottimo lavoro fatto e conferma alcuni limiti della «banda» dal vivo, pur accompagnata da una pletora di musicisti.

Le musiche dell’ultimo disco, abilmente asciugate in studio, dimostrano in concerto tutta la loro ricchezza e profondità. L’ascolto si fa per così dire tridimensionale, rispetto al 2D del disco. Ritmiche, bassi, sintetizzatori, pianoforti, chitarre, tamburelli, mellotron, sampler e così via. L’armamentario è decisamente ampio e l’esecuzione è accurata. Tuttavia, forse proprio per la ricca complessità degli arrangiamenti, forse per l’eccessivo numero di musicisti presenti sul palco, immagini non tutti virtuosi dei loro strumenti, forse ancora per una certa pignoleria nella riproposizione esatta di tutti i suoni, beh alcuni brani risultano troppo pesanti e lenti, come dei pachidermi che non possono andare più speditamente. Quindi, la bontà delle canzoni è ormai indubbia, ma nel complesso i pezzi più stratificati ne escono un po’ zavorrati.

L’esecuzione di tutto il disco in apertura parte un po’ appesantita con “Il Vangelo di Giovanni”, uno dei momenti più articolati musicalmente; procede senza infamia e senza lode per un paio di brani e ha invece un bel riscatto inaspettato con “Eurofestival”: tra le meno interessanti per quanto riguarda i contenuti, sfoggia invece una chitarra trascinante e un assolo finale notevole. La versione su disco è decisamente più addomesticata. Tra i momenti migliori, il dittico “Lepidoptera” – “La vita”, con Bianconi in spolvero assoluto. Peccato per un piccolo passaggio a vuoto nell’arrangiamento della prima. Ricordavo decisamente meno convincente il canto di Bianconi, ma l’ho visto nel 2010 al Carroponte; la scelta dei teatri sembra riuscire quindi a placare il rumore di fondo, mettendo in miglior risalto arrangiamenti e voci. Anche quella di Rachele mi pare più piena rispetto a sette anni fa.

Andando verso la fine del disco, anche gli arrangiamenti si fanno meno gonfi e le esecuzioni diventano più agili e godibili. Ottima davvero la chiusura con “Ragazzina”, anticipata dalle parole di Bianconi: «Due cose non si dovrebbero mai fare: canzoni per i propri figli e canzoni di Natale. Questa è entrambe le cose».

Per quanto riguarda i testi, la serata al concerto mi ha dato lo spunto per convincermi ulteriormente dell’ottimo, eccellente lavoro fatto in questo senso. Lasciando da parte alcuni difetti superficiali che dopo poco tempo non si considerano più, emerge con gli ascolti la dimensione macrotestuale dell’album. I singoli testi, per quanto apparentemente scollegati, si compongono in un quadro organico che è superiore alla somma delle singole parti, come le opere di Caproni, per citare un poeta che conosco abbastanza bene. E quindi il messaggio de L’amore e la violenza non è in nessuno brano singolo, è nel quadro complessivo. Si apre con la guerra e le migrazioni; si parla di pessimismo e amori finiti, brevi, amori come dipendenze; c’è l’anoressia, i sogni come premonizioni di morte, la putrefazione. Poi si riparte: essere felici non è facile ma è possibile, bisogna tornare a quando «servivamo messa»; io non voglio farti più del male, sono attaccato alla vita; la vita è tragica però è fantastica, essendo inutile; e comunque ci si abitua tutto, anche alle bombe. Finale: in questo mondo pieno di mostri, il pensiero di un padre va alla figlia, più fragile di lui: anche se il mondo le fa del male, lei continua ad abbracciarlo. Attaccamento alla vita, nonostante i mostri. E allora resta solo da fare una smisurata preghiera: «Scendi dalle stelle, scendi re del cielo, vieni in questa grotta freddo, vieni in questa grotta freddo e al gelo, tra Gesù bambino e l'uomo nero». Tra l’amore e la violenza.

La seconda parte del concerto non fa che confermare le impressioni sugli arrangiamenti dell’ultimo lavoro. A confronto i pezzi più antichi sembrano troppo semplici, troppo anthemici, a tratti troppo criptici nei testi. Comunque, l’esecuzione è solida: ho apprezzato in particolare alcune variazioni delle melodie in “Charlie fa surf” e la scelta di eseguire “Bruci la città”: cantata da Bianconi assume una bellezza decadente tutta nuova e più adatta al testo. Sembra molto valida anche l’inedita “Veronica n. 2”, per quanto non abbiamo capito bene tutte le parole. Infine, grandi entusiasmo, sia da parte della band sia da quella del pubblico, per il resto morigerato, su “La guerra è finita” e “La canzone del riformatorio”. Davvero, rispetto alle raffinatezze synth recenti, sembravano dei pezzi rock straripanti, anche grazie alle chitarre in primo piano.

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