All'ormai ampia serie di film di genere biopic ora si aggiunge "Elvis" di Baz Luhrmann, presentato all'ultimo festival di Cannes e uscito in Italia lo scorso 22 giugno. E siccome i film biopic, ultimamente baciati da un certo successo commerciale, hanno il difetto di presentare in veste un po' romanzata e non propriamente accurata i musicisti protagonisti (vedi Freddy Mercury, Elton John), ho constatato che purtroppo anche per il re del rock'n'roll non è andata meglio.

Il regista Luhrmann, autore di altri film interessanti come "Moulin Rouge", ci propone in modo sfavillante e sgargiante l'ascesa, il successo e il declino del mitico Elvis (interpretato notevolmente da Austin Butler) dal punto di vista di colui che fu il suo manager ovvero il colonnello Tom Parker. E allora sarebbe stato più consono il titolo "Elvis secondo il colonnello Tom Parker", ma ciò non toglie che la vicenda umana e professionale di Presley appare un po' superficiale, patinata. Intanto, limitarsi a evidenziare la formazione musicale del protagonista secondo i dettami della musica del rhythm and blues afroamericano non è esatto, poiché Elvis ascoltava ed eseguiva anche musica country, altro componente fondante dello stile rock. Ovviamente un performer come lui, negli Usa bigotti e razzisti degli anni '50, rappresentava non solo una novità ma anche un elemento di disturbo, con quel suo ancheggiare provocatorio. E il tentativo di Parker di rendere più pulita l' immagine di Elvis fu tale da snaturarlo sia come cantante (da rocker a crooner pop melodico), sia come attore in film scipiti e banali (nonostante certe potenzialità recitative del ragazzo, come in una pellicola da riconsiderare come "Jailhouse rock"). E quindi i tentativi di Elvis di ritornare egemone sulla scena rock non furono completamente efficaci (qui il regista sorvola un po' sull'affermazione di nuovi miti musicali come Beatles, Rolling Stones, Bob Dylan, Jimi Hendrix che surclassarono il cosiddetto re del rock 'n' roll). La decadenza di Presley sarà caratterizzata da una lunga serie di concerti in America (soprattutto a Las Vegas) in cui il nostro, sempre più imbolsilto ed anfetaminizzato, riproporrà i suoi vecchi successi accompagnato da band sontuose ed ipertrofiche. Fino alla morte sopraggiunta il 16 agosto 1977.

Insomma, per come è svolto il film di Luhrmann, si ha modo di vedere solo Elvis in superficie e tanti aspetti dello stesso vengono tralasciati o comunque non debitamente affrontati. Tanto per dire, il personaggio proprio per il suo carattere introverso celava una psicologia contorta, dovuta forse al fatto di essere sopravvissuto al fratello gemello morto poco dopo il parto. C'era anche, da parte sua, un affetto morboso verso la madre e pure una propensione ad intessere relazioni sessuali con varie donne incontrate in un'esistenza intensa. E non mancavano atteggiamenti ambigui di Elvis sia verso gli afroamericani (era pur sempre nato nel 1935), sia verso altri musicisti rock (Beatles ed altri, da lui visti come latori di musica e filosofia sovversive tanto da chiedere esplicitamente all'allora presidente americano Nixon di mettere un freno a questo pericolo). Proprio strano da parte sua se si considera che aveva incontrato nella sua villa a Graceland i Beatles nel 1965 e insieme aveva suonato qualche brano (chissà che fino avranno fatto i nastri registrati di quella jam session...).

Era certo un uomo ricco di contraddizioni, ma resta indubbia la gran qualità canora delle sue esibizioni, come si può vedere nella parte finale del film in cui scorrono le immagini del suo ultimo concerto mentre esegue magistralmente, pur affaticato, il brano "Unchained melody". Semplicemente indimenticabile.

Certo, poi ci sarebbe da chiedersi che ne sarebbe stato di Elvis Presley se non fosse stato abbindolato e vampirizzato da quel sedicente colonnello Tom Parker, autentico imbonitore da luna park che altri non era che un oscuro emigrato olandese che aveva lasciato precipitosamente la madrepatria per fare fortuna in America e spacciarsi per un fantomatico ufficiale. Qui l'interpretazione di Tom Hanks è perfetta nel conferire tratti luciferini ed inquietanti a Parker e ciò basta per reggere l'intera pellicola.

Per il resto, per come si delineo` la vita di Elvis, ci sarebbe da chiedersi come sarebbe andata se invece il ragazzo, senza scadere in certi eccessi dissacranti e nichilisti a la Sex Pistols, non avesse lasciato allora a metà anni '50 la casa discografica Sun Records per firmare un contratto (più vantaggioso per Parker che per lui) con la RCA. Forse il suo stile rock sarebbe rimasto più genuino e ruspante? E tutta la storia del genere rock avrebbe forse preso un' altra piega? Forse sarebbe stata tutta un'altra storia...

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