Quando nell'aria inizia a farsi sentire la primavera, e le domeniche pomeriggio si allungano, e alle sei senti gli usignoli cantare, mi sorge il desiderio prepotente di ascoltare musica autistica. Così, tanto per costruirmi un passaggio nascosto attraverso le stagioni vacue. Il secondo disco dei Beach House, quest'anno, cade a fagiuolo.
Tanti organetti chiesastici, una chitarra minimale, batterie sottilissime regolarmente campionate (giocoforza: i Beach House sono in due, e non sono i White Stripes), una voce femminile profonda, melodie vellutate. Tira un'aria serena e claustrofobica assieme. Vengono in mente le malinconie insensate dell'infanzia, dentro posti chiusi e ovattati, in località di mare, senza luce, dietro quelle tende pesantissime che si usavano tra anni settanta e ottanta, marroni e beige, a losanghe.
Ascoltare "Gila" è riandare indietro a tempi remotissimi. La batteria è una carezza, i cori sfumano, la voce è ossessiva ma morbida, la chitarra terribilmente retrò. A whiter shade of pale. Ci sono Air, i Portishead di "Glory Box", una dose di noir sottovoce inserita in un pop da modernariato. I Beach House non ci mettono nulla di nuovo, ma l'insieme (compattissimo, fino alla monotonia) riesce ad evocare un'atmosfera unica, che si costruisce su un intimismo torbido e come un po' inquietante.
Più aerea la melodia di "Turtle Island", più tersa "Holy Dances", con il tamburello e le maracas che danno suggestioni esotiche, e pure "All The Years", che infila una delle melodie più riuscite. Non ci sono stonature né tantomeno deragliamenti in altri territori musicali: la ricetta di indie-tronica old-fashioned è rispettata fino alla fine, senza mai superare ritmi mid-tempo narcotizzati.
Ma è dopo aver ascoltato "Heart Of Chambers", con quell'attacco delizioso (organo angelico, riff di chitarra a due corde, batteria elettrica), che decidi che questo disco sarà il tuo modo di inabissarti questa primavera, soprattutto quando entra la voce di Victoria Legrand, che potrebbe essere quella di una vecchia maestra mascolina, autoritaria e penetrante. Le canzoni, come questa, che evocano potentemente nella testa cose che non hai vissuto ma che ti sembra, per magia, di aver vissuto, mi fanno impazzire.
Questo ritornello, intanto, lo metto via assieme ai quaderni delle elementari, e il disco lo piazzo tra i vinili marroni comprati ai mercatini. E lì crescerà, come il vino nelle botti.
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