Sono passati due anni dalla tragica notte di Parigi, che tra presunte chitarre frantumate e prugne lanciate ha portato alla separazione definitiva dei due fratelli Gallagher e allo scioglimento degli Oasis. Ed ecco che, orfani della mente e della chitarra di Noel, Liam, Gem Archer, Andy Bell (tornato nell'originario ruolo di chitarrista ricoperto a inizio carriera nei Ride e negli Hurricane#1) e il batterista Chris Sharrock, aiutati dal bassista Jeff Wootton (in passato protagonista di collaborazioni con i Gorillaz dell'ex Blur Damon Albarn), dal tastierista Matt Jones e soprattutto dal veterano produttore Steve Lillywhite (l'uomo che per intenderci ha lanciato gli U2) ci riprovano.
Riprovano ad essere di nuovo una rock band, una grande rock band. Vogliono dimostrare che, anche senza il fratello maggiore, al tempo stesso tremendamente geniale e tremendamente arrogante, qualcosa da dire in fondo ce l'hanno anche loro. E il risultato, scetticismo della stragrande maggioranza dei fan, e non solo, a parte, non è affatto male. Senza inventare sostanzialmente nulla di nuovo, ma senza nemmeno la pretesa di farlo, "DGSS" è un disco che funziona, che si fa ascoltare e riascoltare, un disco gradevole e quasi mai stancante.
Si tratta di un allontanamento dalle baroccheggianti e pesanti produzioni degli ultimi lavori degli Oasis (per altro per nulla male, "Dig Out Your Soul" su tutti), a favore di un recupero non solo delle origini della band di Manchester ma di quel sound anni '60 tipicamente britannico, verso cui i Gallagher hanno contratto un grande debito negli anni, mischiato ad uno spirito e ad un approccio tutto nuovo di un gruppo di quarantenni, abituati a riempire gli stadi di tutto il mondo, che all'improvviso si ritrovano a dover ricominciare da zero (o quasi), e lo fanno con il genuino entusiasmo di 4 ventenni sbarbati qualunque.
Il disco si apre con l'energia di "Four Letter Word", che sembra quasi un insulto liberatorio nei confronti di quanti da quella fatidica sera di fine agosto 2009 hanno storto il naso non appena Liam e soci fossero solo nominati, in quanto prima parassiti e poi antagonisti del divino Noel, e che sarà poi usata per aprire i concerti del primo tour della band. Si passa poi a "Millionaire", dalla chitarra orientaleggiante che richiama alla memoria quel George Harrison cui gli Oasis devono tanto e con la testa del quale Liam dichiarò di "voler giocare a golf" anni or sono. Le influenze Fab4, sopratutto di uno di loro, escono fuori con prepotenza nel pezzo successivo: "The Roller", praticamente un remake della celeberrima "Instant Karma" di John Lennon, il quale, a detta di Liam, avrebbe molto apprezzato il brano, che risulterà a fine anno essere il singolo in vinile più venduto in Gran Bretagna.
Si passa poi a "Beatles And Stones", pezzo che è di fatto, già a partire dal titolo, il vero manifesto delle intenzioni della neonata band e che si fa notare però sopratutto per essere uno dei meno riusciti dell'album, nonostante l'energico riff alla Pete Townshend. Analogo discorso vale per il seguente "Wind Up Dream", un rock sin troppo compatto, al punto da raggiungere la ripetitività con solo 3'27'' di durata. La successiva "Bring The Light" è il pezzo che, uscito come singolo promozionale il 10 novembre 2010, ha contribuito ad aumentare lo scetticismo sul nuovo imminente lavoro di Liam e soci, per via probabilmente della tastiera abbastanza raffazzonata e dal coro arrancante finale, pezzo che però all'interno del disco trova una sua perfetta collocazione e che nei live esplode in tutta la sua massima potenza e bellezza.
Segue "For Anyone", gradevole ballata di poco più di due minuti che appare però poco più che un riempitivo, un preludio alla seguente "Kill For A Dream", una delle vette dell'album. Si tratta di un pezzo di stampo tipicamente vintage, con una chitarra e un sound che richiamano alla memoria e all'orecchio i Kinks dell'epoca "Lola", il tutto condito da un coro trascinante e un ritornello-inno come ai vecchi tempi, con voce di Liam in perfette condizioni. Solido e compatto il rock della successiva "Standing On The Edge Of The Noise", che richiama alla memoria un live di studio registrato dagli Oasis ai tempi di "Dig Out Your Soul". Si passa poi a "Wigwam", il pezzo più controverso del disco: sei minuti di sfogo strumentale condito da trascinante "Sha-la-la-laaa...I'm coming up/I'm coming up", inizialmente condannato dalla critica e di conseguenza dai fan e dalla band stessa, per poi essere rivalutato ed elevato quasi allo status di capolavoro sia da critici che da fan che da musicisti.
La traccia seguente è "Three Ring Circus", che non si segnala nè per essere la nuova "(I Can't Get No) Satisfaction" nè per essere la nuova "Wake Me Up Before You Go-Go": il classico tappa buchi senza poche pretese. La chiusura è invece da brividi: spettacolare "The Beat Goes On", probabilmente uno degli inni e dei pezzi più belli dell'anno, che sfuma poi in "The Morning Son", il brano più Oasis dell'album (Noel dirà in seguito di avervi suonato la batteria ai tempi di "Dig Out Your Soul"), la cui struttura, a cominciare dalle onde e dai gabbiani, ricorda molto "Champagne Supernova" e la chiusura del leggendario "(What's The Story) Morning Glory?", il vertice degli Oasis e del britpop in generale. Altri tempi, certo.
A 16 anni (ormai 17) di distanza siamo invece qui a commentare il ritorno sulle scene dei due fratelli, divisi e rivali. Due ritorni diversi per stile e filosofia: tanto pacato quello dei Beady Eye, che stanno provando a dare vita ad un nuovo ciclo con molta umiltà e pochissimi ponti con il glorioso passato (per sentire live cover degli Oasis come ha dichiarato Liam se ne riparlerà nel 2013), tanto maestoso e pompato (chiaramente con affetto) quello di Noel, buttatosi nella nuova avventura come songwriter solista, su cui francamente ha ancora parecchia strada da fare. Probabilmente a vincere l'ennesima battaglia sarà ancora una volta Noel Gallagher, cascasse il mondo se la critica britannica qualche volta non si schierasse dalla sua parte, ma sicuramente a perderla non saranno i Beady Eye.
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