E' il grande problema della musica di oggi: riuscire a rielaborare le coordinate lanciate nei vari generi dai loro rappresentanti maggiori, i gruppi "cardine". Gli svedesi Beardfish ci sono riusciti più o meno sempre, con risultati anche molto positivi ed originali come i due "Sleeping in the traffic".

Dopo "Destined solitaire" del 2009, i quattro scandinavi sono tornati in studio per dare alla luce il sesto album, partorito dalla Inside Out Music. Per la band, Mammoth rappresenta quello che da molti veniva considerato in due modi: o il lavoro della definitiva esplosione o quello che sanciva la bontà della proposta senza però la forza necessaria per emergere completamente. Come c'era da aspettarsi, all'uscita di Mammoth la critica e i fans si sono divisi: chi definisce codesto cd come il più completo del combo, chi li accusa di un'eccessiva superficialità.

Mosso quindi da curiosità e consapevole di trovarmi davanti ad una band che nel recente passato ha comunque sfornato lavori degni di nota ho deciso di procurarmi l'ultimo disco targato Beardfish, per rimanerne prima estasiato, poi contento e infine addirittura un po' deluso. Sia chiaro: il progressive rock che ci propongono questi quattro svedesi è molto più interessante e "sentito" della maggior parte di ciò che ci propina il mercato musicale odierno, ma certamente dalla classe di questi musicisti mi attendevo qualcosa di maggiormente positivo.

Rifacendosi a quelli che sono i maestri del progressive rock come Camel, King Crimson e in parte ai Rush, il gruppo ha saputo trovare il giusto equilibrio tra l'importanza di questi gruppi e la loro personalità, arrivando a creare una miscela dal retrogusto settantiano ma dall'odore prettamente moderno. Questa capacità della band viene ulteriormente amplificiata in Mammoth verso una straordinaria pulizia sonora e verso un aumento innegabile di riff e pesantezza. Per lunghi tratti il loro ultimo lavoro suona decisamente hard rock e questo non è di certo un male: ciò che non soddisfa pienamente di Mammoth è una sensazione diffusa di macchinismi forzati, che intaccano un po' tutto. Sebbene la buona prova vocale del leader Rikard Sjöblom, le sue linee vocali risultano troppe volte forzate, quasi distaccate dalla base sonora. Se infatti "The platform" e "Green waves" sono perfette sotto il punto di vista musicale, con la seconda che è decisamente la cosa più dura mai concepita da Sjöblom e soci, le linee vocali non convincono pienamente: una colpa da dividere tra i vari membri del gruppo, che sembrano quasi voler indugiare su un songwriting di stampo strumentale, relegando in secondo piano la parte vocale. E' questo un po' il trend di tutto il lavoro, in bilico tra una classe innata ("And the stone said: if I could speak") e soluzioni discutibili come l'inutile intermezzo "Outside/inside".

Dopo diversi ascolti Mammoth si afferma con eccellenze (splendido il jazz di "Akakabotu") e una liquidità di fondo che annacqua il giudizio finale, intaccato anche da brani che ogni tanto perdono il filo e si dilungano in partiture forzate. Dispiace, perchè hanno una tecnica e una varietà stilistica davvero importante al giorno d'oggi, ma in Mammoth non la riescono ad esprimere al meglio. Consigliato a tutti gli amanti del genere.

1. "The Platform" (8:05)
2. "And The Stone Said: If I Could Speak" (15:09)
3. "Tightrope" (4:33)
4. "Green Waves" (8:54)
5. "Outside/Inside" (1:43)
6. "Akakabotu" (5:41)
7. "Without Saying Anything (Feat. Ventriloquist)" (8:11)

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