Davanti alla prolificità di certe band stratosferiche – che non se ne usciranno mai con iperproduzione di stronzate da quattro accordi strofa/ponte/ritornello/e cosi via – sorge spontaneo chiedersi perché nella media mainstream invece si rilascino “dischi” ogni due-tre anni se non più.

Il pesce-barba sfugge da tutto questo (assieme a tanti altri talentuosi pressoché ignoti), infatti questi quattro svedesi macinano la strada dal 2003, e sempre a grandissimi livelli. “Mammoth”, sesta fatica uscita a fine marzo, è l'ultimo capitolo di una saga ricca di musica spettacolare e sempre “nuova”. Prolificità dicevamo, e dal booklet si scopre addirittura che il disco era in standby da quasi un anno. Curiosità della discografia...

“Mammoth” comincia con i riff di “The Platform”, e subito capiamo che i toni sono diversi dagli episodi precedenti: le progressioni ritmiche sono più pesanti e le chitarre creano atmosfere cupe, mentre il mood generale dei testi (sempre bellissimi a mio avviso) è malinconico. L'allegro eclettismo cazzone di “Sleeping in Traffic pt. II”, molto zappiano, tanto per capirsi, è messo un po' da parte, ma non per questo non troviamo roba bella. Sulla falsariga dell'opener segue “And the Stone said 'If I Could Speak'”, che dopo una intro di quattro minuti e mezzo in cui introduce tutti i temi della suite parte con una suggestiva storia di tradimenti e massacro volta forse a criticare l'assurdità di certi culti. Due cose da notare in questa traccia: il sax (vera propria guest star di questo album) e il growl nella parte finale. “Green Waves” mi ricorda molto di “Limo Wreck” dei Soundgarden cantata però “alla Ozzy”, ed è forse è la canzone più dura che ho sentito dei Beardfish.

Si chiude così questa “trilogia oscura”, appena interrotta dai delicati mellotron di “Tightrope”, dolce ballata su cui – per quanto sia assai gradevole – si poteva lavorare di più. Un intermezzo strumentale che potrebbe far da colonna sonora ai fratelli Lumière ci introduce invece ad “Akakabotu”, in cui le strutture più tecniche del prog anni '70 si arrovellano per poi svanire in un ritornello molto fusion guidato dal sax di cui sopra. A darci il bacio della buonanotte la mia traccia preferita, che poi sarebbero due attaccate di seguito: “Without Saying Anything feat. The Ventriloquist”. La prima è più solare, sembra quasi una versione prog di “Uptown Girl”, riuscita in ogni virtuosismo, mentre la seconda è una sorta di appendice al disco, ne riprende infatti la malinconia e chiude sfumando.

Obbiettivo centrato anche stavolta direi, con i Beardfish che licenziano un disco dalle strutture complesse (ad ogni ascolto ti sorprende con qualcosa di nuovo) ma al tempo stesso avvicinabile e del tutto godibile.

Tracce chiave: “The Platform”, “And The Stone Said 'If I Could Speak”, “Green Waves”.

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