Novembre 1974, tre anni e spicci, ricordo niente ma, per quanto precoce, dubito fortemente che mi passi per le mani una copia di tal Playboy: pare che negli Stati Uniti d'America quel giornaletto vada alla grande per via delle signorine discinte che popolano le pagine, soprattutto il mitologico paginone centrale.
Per questo di Bebe Buell ignoro l'esistenza per decenni, peraltro senza perderci il sonno e nemmeno il senno: pare ancora una volta che la ragazza – nel novembre '74 ventunenne – faccia bella mostra di sé proprio su quel paginone centrale.
Però cresco a furia di vinili punk che faccio girare sul giradischi e, pure oggi che faccio girare tutt'altra musica, mi emoziono sempre a recuperare le assurde ristampe che tante piccole etichette si ostinano a rimettere in circolo. Per cui apro una minima parentesi a sempiterna lode e gloria di tipi come quelli di Breakout, Hozac, Supreme Echo e Superior Viaduct, sorta di Greg Shaw e Tim Warren di questi giorni. Chiusa parentesi.
Proprio adesso la Hozac ristampa un paio di cose di personaggi che col punk, seppure di sguincio, nel fatidico triennio entrano in rotta di collisione: una di questi, ovvio, è Bebe Buell. Ecco, Bebe la conosco grazie a Hozac. E se c'entra col punk, seppure di sguincio, deve pure essere da qualche parte tra le seicento e passa pagine di “Please Kill Me” che per il genere è mezza bibbia e mezzo who's who: infatti nell'indice dei nomi ci sta, dire dove sta di preciso non ne ho la più pallida idea, ma quando tra qualche tempo me lo rileggerò per l'ennesima volta, di sicuro ad un certo punto sbotterò in un «Ah, eccola Bebe!». E visto che sta da qualche parte del libro e che ci ha messo le mani la Hozac, il dischetto di Bebe me lo compro.
Si chiama “Cover Girls”, è un ep uscito nel 1981 con la produzione di Ric Ocasek e Rick Derringer, quattro brani, tutte cover – quella “My Little Red Book” che non so se è più di Burt Bacarach o dei Love, “The Wild One, Forever” dall'esordio di Tom Petty, “Little Black Egg” dei garagisti Nightcrawlers e “Funtime” degli idioti Pop&Bowie, per dire che la ragazza ha ottimo ed eclettico gusto – di punk nemmeno l'ombra, solo pop più o meno ballerino che al primo ascolto dico boh, al secondo in fondo non è male, al terzo decisamente piacevole, anche perché se non c'è traccia di punk non ce n'è neppure di tutta la plastica che da lì a qualche anno sommergerà il pop e soffocherà ogni traccia di fantasia.
E insomma è un piacere avere conosciuto Bebe, anche oggi che ha settant'anni e ne sono passati cinquanta dal paginone centrale di Playboy, novembre 1974. Poi di lei ho saputo che, in quegli anni fatidici, dal paginone centrale finisce nel calderone delle groupies – anche se lei si considera piuttosto una musa per tanti, da Mick Jagger a Iggy Pop e soprattutto quel Todd Rundgren con cui condivide una storia difficile da definire, almeno per me – e che molti la conoscono più che altro per essere la mamma di Liv Tyler, ma siccome a me di Liv e papà Steven frega meno di niente, ecco che Bebe me la fa conoscere solo qualche mese fa la Hozac. Solo fossi stato più attento, l'avrei conosciuta ai tempi in cui Joey Ramone ne parla come la ragazza dagli occhi color Windex, che è come dire ad una ragazza «Che begli occhi color Vetril che hai!»; ma che i quattro Ramones sono al di là di ogni classificazione di meglio, questo lo so praticamente da sempre.
Poi a giugno 1996, venticinque anni e spicci, qualcosa mi ricordo, mi compro un libro chiamato “Playboy Stories”, illuso che sia la raccolta di tutti i paginoni centrali dalle origini, mentre è la raccolta di quarant'anni di racconti pubblicati su quel giornaletto, dove pare che oltre alle signorine discinte appaiano pure scrittori di qualche talento tipo Borges, Kerouac, Marquez, Roth. E oggi, 2023, penso che se quel Playboy novembre 1974 mi fosse passato per le mani, mi sarebbe piaciuto più per il racconto di John Irving che per il paginone di Bebe, insomma sono invecchiato e pure male.
A chi può interessare, consiglio entrambi, disco e libro.
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