"La capacità di servirmi bene dei miei mezzi si riduce quando cresce il loro numero".
Così si aprono le note sul cinematografo di Bresson. Con una riflessione che i fratelli Matt e Bubba Kadane dei Bedhead sembrano fare propria. Il disco si apre con un giro di basso che sembra lambire il silenzio piuttosto che tracciare una melodia. Fare tabula rasa e allo stesso tempo tracciare il sentiero sul quale muoverà i primi passi di lì a poco la chitarra pizzicata quasi fosse un'acustica. Ma acustica non è, e nella rarefazione dei suoni il timbro della fender ha una sua metallica rotondità che ne fa sensazione tattile oltrechè acustica.
Prima che "Exhume", il brano di apertura, si chiuda entreranno in scena anche la voce e il suono tinnulo di un vibrafono, e sarà una sorpresa, la scoperta che un disco non necessariamente si divide in canzoni e brani strumentali, che la voce può comparire per scandire poche brevi frasi e aggiungere un colore strumentale senza rubare la scena in alcun modo alle tessiture di chitarra basso e batteria. "More than ever" è un crescendo che riesce ad essere drammatico nel lento sovrapporsi degli strumenti senza mai deflagrare o fare la voce grossa. Reiterazione e lenta variazione sono modalità compositive tipiche del post-rock (desunte dal minimalismo) ma i bedhead non sacrificano mai a questa struttura una scrittura di forte impianto melodico. Solo, di melodia assorta si tratta e di rovelli sussurrati che ben si sposano all'incedere spiraliforme degli strumenti. "Parade" fa bello sfoggio delle tre chitarre che suonano nel disco, e solo allora ci si accorge che sempre tre le chitarre sono state, anche nei brani più rarefatti. Tre chitarre con tre voci distinte. Non tre chitarre per suonare più note, o per aggrovigliare i fili. Tre nitide e semplici chitarre per dialogare in una dialettica di sfumature che si traduce in diversa pressione delle dita sulle corde, di maggiore tendenza all'arpeggio o alla distorsione. Quando parte "Extramundane" con un bel passo di batteria scattante e il phrasing del cantato che sta al passo senza rinunciare alla sua leggerezza si è finalmente capito: nessun partito preso formale per i Bedhead. Non lentezza come stile. Non rarefazione come scelta di campo. Non narcolessia come griffe.
"Psychosomatica" parte subito con un riff potente e la voce, abbandonato il sussurro dei brani precedenti, e piena e sicura. Anche il dogma del crescendo con un simile attacco va a farsi benedire. Ogni canzone è una rifondazione del suono. Si parte da zero e si aggiunge solo ciò di cui si sente il bisogno. Ciò che ne verrà sarà valido per il tempo di quel brano, frutto maturato senza forzature, oggetto levigato con dedizione. Il paradosso è che nessun disco sembra così coeso come questo in cui ogni canzone è costruita in un luogo senza memoria. I bedhead incidono suonando i loro dischi come "live in studio". Mi chiedo se potrebbero nascere altrimenti simili organismi viventi in musica... dimenticavo di citare le fonti o i possibili referenti di questo suono solo che... mi spiace, non ho mai ascoltato i suonatori di arpa eolia all'alba dell'umanità.
p.s.
mentre annego nel tremolo della chitarra che nell'ultimo pezzo sembra quasi un violoncello ascolto le parole cantate da Matt Kadane e mi vergogno un pò a sentire sulle sue labbra la recensione perfetta al disco:
"When to be ashamed is to be defined/and all this self awareness the blind led by the blind/an empty conscience is sensitivity"
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