Non conosco nulla di questo gruppo... Né i nomi dei suoi componenti né la loro biografia né qualsiasi altra cosa… So solo che qualche giorno fa ho letto in riferimento a loro questa definizione, “rock svogliato per cuori malinconici”, e ho immediatamente scaricato quello che lì si diceva il loro album migliore, “What A Fun Life Was”… Vado ad ascoltare e in effetti mi accorgo subito che la malinconia è la sensazione che prevale…

Le canzoni si mantengono sempre sullo stesso tono, con la voce del cantante che sembra quasi parlare, anzi sussurrare, tanto è “svogliata”: diventa quasi uno strumento che suona sempre sulla stessa linea, mentre la chitarra elettrica svolge la melodia, sempre triste e assonnata, che ricorda un po’ leatmosfere slow-rock di “I Could Live In Hope” dei Low. I piatti della batteria percorrono un ritmo omogeneo, riempiendo l’aria e creando un effetto di volo etereo, accentuato qua e là dal sottofondo quasi alla “shoegaze” ottenuto dalle chitarre. Ogni tanto poi si inseriscono dei veri e propri sfoghi noise, ad esempio in “Haywire”, “Bedside Table” o “Living Well”, le tracce più “forti”, sviluppati naturalmente solo dalla strumentazione, mentre il cantato se ne sta sempre lì, immobile. La particolarità di questa staticità è che l’effetto che viene in realtà a raggiungere è quello di un caldo ed emotivo avvolgimento tutt’altro che fermo: infatti le melodie ricamate dalla chitarra e il movimento dato dalla batteria e dal basso trasportano il lettore in un viaggio che sembra quasi alato… E il timbro del cantate è veramente affascinante, caldo e estasiato, come incantato. Queste caratteristiche sono racchiuse alla perfezione nella traccia iniziale, “Liferaft”, un inizio su un giro di chitarra ripetuto fino alla noia su cui subentrano poi la batteria, sempre delicata, e poi la voce pigra, con un crescendo del volume delle percussioni nella seconda parte fino ad avvolgere tutta l’atmosfera e a far allargare l’immaginazione in spazi sempre più ampi; il momento più bello è il ritorno del cantato, allontanatosi durante questo climax, che riprende la melodia iniziale leggermente un po’ più forte aprendo ancora di più lo sguardo verso paesaggi lontani e immaginari. Anche “Crushing” ricalca la stessa struttura, mentre “Haywire”, più movimentata, è forse la più “shoegaze” del disco. Poi “The Unpredictable Landlord” costituisce una piccola variazione di ritmo, data soprattutto dalla percussione più vigorosa della batteria (abbiamo detto infatti che nel resto del disco vengono quasi sempre risaltati i piatti), “Unfinished”, il brano più lento, quasi solo chitarra e voce, ci riporta a ritmi e velocità fiacchi, poi rimarcati nella successiva “Powder”, ossessivo giro di chitarra ripetuto all’infinito per una notevole durata (arriviamo a 7 minuti), sempre crescendo in intensità e partecipazione degli strumenti man mano che si va avanti. Buono anche l’intermezzo “bluesy” di “To the Ground”, utile a spezzare l’ atmosfera con un momento di allegria spensierata. Dopo la ripresa di situazioni più prettamente noise-rock in “Living Well”, molto simile alla sovracitata seconda traccia, “Haywire”, giunge la conclusione perfetta, “ Wind Down”: un inizio che ricorda il bozzetto acustico “You Never Wash Up After Yourself” dei Radiohead ma che sfocia dopo poco in un riff di chitarra, molto orecchiabile, quasi liberatorio, sottolineato come al solito dal resto della strumentazione e in questo caso anche dal cantato, che all’improvviso, come stanco anche della propria stessa stanchezza, si lascia andare ad un tono più rabbioso, che poi culmina nel finale punk-rock (sebbene sempre nella solita atmosfera eterea)…

Un ottimo album, da consigliare per un viaggio in macchina o in pullman, da ascoltare con la testa appoggiata al finestrino e guardando il paesaggio che scorre lungo la strada, cercando sempre di andare oltre quello che si vede, oltre l’orizzonte, fino a librarsi nel cielo, immersi e catturati ipnoticamente dall’atmosfera incantata e confortevolmente malinconica di queste splendide canzoni. PS: il voto è 4,5

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