Beggars Opera è stato il tipico gruppo progressive britannico dei primi anni '70, abile e creativo nei solisti quanto deboluccio e poco incisivo nelle ritmiche. Il sestetto aveva come primo punto di forza il suggestivo e virtuosistico lavoro all'Hammond dell'organista Alan Park, elemento dagli evidenti studi classici e dalla grande agilità esecutiva. Solo un gradino sotto al suo proscenio era poi il chitarrista Ricky Gardiner (in seguito anche alla corte di David Bowie), molto vicino alle scuola di Ritchie Blackmore sia nelle ricerche timbriche sulla sua Fender Stratocaster, che per l'uso cospicuo e penetrante della leva del vibrato. Il terzo solista era infine il biondissimo cantante Martin Griffiths, in possesso di grinta e inusitata potenza vocale, non supportata però da adeguata tecnica ed espressività.

'Waters Of Change' esce nel 1971 come secondo album, avendo la formazione esordito l'anno prima con il curioso 'Act One', un lavoro reso inconfondibile dalla copertina 'felliniana' e dal contenuto molto derivativo, formato in buona parte da lunghe suites ricolme di citazioni e passaggi di musica classica. Stavolta il gruppo lavora in maniera più organica, compone canzoni di durata normale (per il progressive, alcune quindi lunghe sette, otto minuti perché no?), riesce a darsi il suo suono, il suo stile. Lavora con testi, cori e melodie a potenziare il lato vocale, delimita il ruolo di Alan Park, affrancandolo dalle interminabili fughe sulla tastiera che avevano infarcito il primo album e facendo rientrare il suo virtuosismo sempre alla forma canzone. Ne viene fuori un progressive molto accessibile, rotondo e senza spigoli, con bei suoni ed un bel piglio evocativo al 100% britannico. Proprio l'ideale, ad esempio, da 'mettere' in auto mentre si va per castelli in qualche paese del nord Europa, magari alternandolo ai più noti Jethro Tull, Gentle Giant e Fairport Convention 'Time Machine' è il piacevole esordio del lavoro, con la fortissima voce di Griffiths che tende a dominare il panorama sonoro, arricchito oltre misura dalle sciabordate della 'mellotronista' Virginia Scott (nessun altro strumento a lei accreditato, malgrado essa sia curiosamente la compositrice principale del gruppo), sul quale poi sia organo che chitarra si ritagliano efficaci assoli.

La seguente 'Lament' è un breve strumentale che vede il solo Park al proscenio, ad intonare un evocativo lamento (appunto) d'organo, che più elisabettiano non si può, supportato solo da lontane ed attutite percussioni. Perfetto da ascoltare indugiando 'in loco' fra rovine di Stonehenge, scorci di Canterbury e similia. L'atmosfera così raccolta e antica viene spezzata dall'arrivo del turbine rock (si fa per dire) di 'I've No Idea', con la sua ritmica serrata (si fa sempre per dire) e riffeggiante, per poi di nuovo acquietarsi verso una nuova nenia strumentale chiamata 'Nimbus', altra chicca buona per lisergiche e medievali riflessioni. La seconda facciata (per chi ama la vecchia abitudine da LP) è inaugurata dalla simil-giga scozzese 'Festival', molto allegra e spumeggiante come è giusto che sia, ed in omaggio alla propria terra (i Beggars Opera avevano base a Glasgow), per poi proseguire col pezzo strumentalmente più brillante della raccolta, che si intitola 'Silver Peacock': una breve annunciazione sfarzosa poi parte a testa bassa un virtuosissimo arpeggio del buon Park, agile come un leprotto sui registri del suo Hammond. Ma è solo un'intro perché poi il brano si sviluppa in una parte cantata più distesa e stentorea. Griffiths prova ancora a fare il Greg Lake, di cui ha certo il vocione ma non esattamente, anzi per niente la squisitezza di timbro.

Altri due brani, l'ennesimo breve strumentale 'Impromptu' e l'insipida 'The Fox', chiudono il discorso: niente di indispensabile, molto comunque di suggestivo e piacevole in questo lavoro dalla tipica aura artigianale ben concepita, dote comune a parecchie (non tutte, alcune sono piatte e inutili) delle uscite progressive su etichetta Vertigo dei primi anni settanta. Da conoscere.

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