Sinfonie per cuori spezzati.
Ci sono stati diversi momenti della mia vita in cui ho avuto un estremo bisogno dei Belle & Sebastian… probabilmente la radice è la stessa che ha portato una generazione "dimenticata" degli anni '80 ad ascoltare gli Smiths e i testi di Morrissey, oppure quella cosiddetta "dark" ad ascoltare Cure e Joy Division.
Ma per tanti anni il vuoto lasciato dagli Smiths, almeno dal punto di vista di impatto lirico, è sembrato incolmabile: fino a quando è arrivato questo fantastico gruppo scozzese. La musica dei Belle & Sebastian va vissuta come una parentesi oltre la realtà e oltre la propria memoria, e mai come in questo caso è necessario sottolineare il binomio indiscibile tra melodia e cantato che in un certo senso è parallelo o proporzionale al dualismo etica/estetica. Questi due elementi si fondono insieme, diventano una cosa sola e si tramutano quasi in uno strumento a sè che porta l'ascoltatore ad assentarsi completamente dal proprio presente. I B & S evocano immagini, colori, persone e situazioni che puoi avere vissuto o dalle quali la tua realtà non potrebbe essere più distante... figure di serenità e nostalgia che con la musica si fanno sempre più astratte, quasi come se Stuart Murdoch fosse lì a renderle impalpabili... come se stesse cantando nella tua camera seduto al tuo fianco. Almeno è questa la sensazione che provo mentre ascolto brani come "The State I Am In", primo cavallo di battaglia della band, "My Wandering Days Are Over" e tante, troppe altre.
Ed O'Brien dei Radiohead disse che da ragazzino ascoltava gli Smiths perchè ascoltandoli gli sembrava che Morrissey stesse parlando direttamente a lui, una vera e propria catarsi: è più o meno allo stesso modo che per tanti periodi i dischi dei Belle & Sebastian hanno funzionato come metodo terapeutico per il mio umore.
Sono quasi contento che gli ultimi lavori della band di Dundee siano forse stati meno poetici e memorabili: così, quella magnifica trilogia inaugurata nel 1996 da questo fenomenale "Tigermilk" la sento ancora un pò più mia, condividendola con una comunità invisibile (ma sicuramente esistente) di inguaribili cuori spezzati. Nonostante molti suggeriscano i due successivi dischi (sicuramente più curati e finanziati), per me il vero capolavoro del gruppo è questo esordio che viene spesso ingiustamente trascurato. Realizzato con un budget bassissimo (una borsa di studio), con una spinta promozionale pari a zero, "Tigermilk" immortala in modo sublime quello che sono veramente stati i Grandi Belle & Sebastian, quelli destinati ad entrare nella storia del pop.
Quest'album, completamente autoprodotto, resterà nascosto per anni (in Italia sarà pubblicato solo nel 1999 - tre anni dopo la sua pubblicazione in UK - sulla scia del sorprendente successo di "The Boy With The Arab Strap") ma contiene alcuni tra i più grandi classici di questo gruppo il cui nome è un omaggio al famoso romanzo di Cecilie D'Aubry.
Immerso in una atmosfera onirica, vive di colpi di genio a sè stanti come la già citata "The State I Am In", la struggente "We Rule The School", il garage '60 di "You're Just A Baby" e l'elettropop lo-fi di "Electronic Renaissance" che stordisce rispetto al sound delle altre tracce, che ripercorre un pò Donovan (per il cantato di Murdoch e le introspezioni acustiche) e un pò Nick Drake (per il mood generale dell'album, che comunque si apre a brani solari e brillanti come "She's Losing It" che fa molto Ray Davies).
Le citazioni sono tante, gli amori della band (ben 7 elementi, tra i quali spiccano la bella ed eterea Isobel Campbell e l'ombroso Stevie Jackson) innumerevoli, ma tutti perfettamente amalgamati in un' unica atmosfera: Bob Dylan, Morricone, appunto gli Smiths, Neil Young, i Velvet Underground e tanti altri.
Il momento più intenso è "My Wandering Days Are Over" dove l'arrangiamento si fa, da semplice (solo voce e chitarra)sempre più complesso e sofisticato: i testi delle canzoni si adattano alla perfezione a questo particolare "Wall Of Sound", trattando con delicatezza a volte sorprendente temi come l'omosessualità repressa e la solitudine urbana.
Un piccolo, e indimenticato, gioiello dello scorso decennio.
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