Ve lo siete comprato «Blue And Sentimental» di Ike Quebec? Lo avete scaricato dall’internet? Almeno avete dato un ascolto a qualche brano?
No, vero?
Ne ero sicuro, perché ci sono passato anch’io.
Quello che ci frega e ci tiene a debita distanza dal jazz, a noi garage punksters zozzoni, è nell’ordine:
-
non li reggo ’sti brani che durano più che l’eternità e non c’è nessuno che canta e suonano solo sassofoni, contrabbassi e batterie (qualcuno pure lo xilofono);
-
non esiste un motivetto, è impossibile ricordarsi le canzoncine e fischiettarle.
Per cui, rieccomi qui, questa volta per raccontarvi un po’ di storie su «Further Definitions» di Benny Carter, un razzo missile supersonico puntato dritto verso la madre Russia.
Perché, semmai è esistito un punto di contatto tra i Ramones ed il jazz, quel punto si trova da qualche parte, qui dentro.
Perché trovatemelo voi un altro disco jazz che contiene otto canzoni e dura poco più di mezzora, per una media di quattro minuti a brano, che, come noto, corrispondono pari pari ai fatidici due-minuti-due degli immortali inni dei fratelloni Ramone.
Perché trovatemelo voi un altro disco jazz dove ogni maledetto brano ti si incunea all’istante nel cervello, e nei giorni a seguire lo fischietti sotto la doccia, in macchina, in coda alla cassa del supermercato, mentre ti infili sotto le coperte.
Perché, anche, trovatemelo voi un disco che alterna brani tirati al fulmicotone quanto (se non più di) «Cretin Hop» e «Rockway Beach» a ballate avvinghianti da far impallidire «Here Today Gone Tomorrow».
Non ci sono storie, «Further Definitions» è «Rocket To Russia» in salsa jazz.
Oddio, una differenza tra questo disco e «Rocket To Russia» a dire il vero esiste, ed è che i Ramones dopo lo sbandamento non sono mai più tornati a suonare insieme, mentre «Further Definitions» è il frutto di quella che nel gergo rock’n’roll si direbbe una reunion.
Il fatto è che, pur essendo intitolato a Benny Carter ed alla sua orchestra, nell’orchestra in questione figura un tal Coleman Hawkins.
Ora, i due avevano già incrociato i sassofoni nel 1937 in un gruppo passato alla storia come Coleman Hawkins And His All Star Jam Band, e non sembri un’insegna pomposamente pretenziosa, considerato che ne facevano parte altri ragazzetti di belle speranze come Stephane Grappelli e Django Reinhardt. Si incrociarono, incisero alcuni brani (i più noti, «Honeysuckle Rose» e «Crazy Rhythm») e poi si salutarono calorosamente e ciascuno prese la propria strada.
Però ad un pischelletto di nome Bob Thiele, che all’epoca aveva quindici anni, quelle sessioni di incisione trafissero il cuore. E quando il pischelletto, dopo avere, nell’ordine: lavorato come dj; pubblicato una rivista jazz; fondato una casa discografica che subitamente chiuse i battenti; essere disinvoltamente passato alla Decca, ingaggiando Buddy Holly ed affiancandolo nell’incisione del superclassico «That’ll Be The Day»; quando il pischelletto, nel 1960, è un rinomato produttore ed approda alla Impulse (the new wave of jazz, strilla il logo impresso sui dischi licenziati), l’assale la smania di ricreare il sodalizio tra Benny Carter e Coleman Hawkins.
Nel 1961, Benny Carter e Coleman Hawkins sono due affermati colossi del sassofono, due dinosauri si sarebbe detto meno rispettosamente quindici anni dopo. Basti dire che Carter, nel corso degli anni, aveva suonato con artisti del calibro di Sidney Bechet ed Earl Hines, Fats Waller e Fletcher Henderson, Duke Ellington e Benny Goodman, Count Basie e Glenn Miller. Coleman Hawkins è Coleman Hawkins, il papà del sassofono jazz; come Johnny Ramone ha insegnato al mondo a suonare la chitarra punk, Coleman ha insegnato al mondo a suonare il sassofono, Lester Young dixit. Punto.
Alla Impulse se lo possono permettere, di assoldare due dinosauri, perché tra quelle mura i rivoluzionari John Coltrane, McCoy Tyner e Charles Mingus convivono pacificamente con i reazionari Count Basie e Duke Ellington.
Detto fatto, Bob Thiele telefona ad entrambi; ed entrambi, sul finire del 1961, sono a New York per rinverdire i fasti dei bei tempi andati. Insieme a loro, si presentano gli altri sassofonisti Phil Woods e Charlie Rouse, il pianista Dick Katz, il chitarrista John Collins, e la sezione ritmica di Jimmy Garrison e l’immancabile Joe Jones: dalla teoria alla pratica, la tradizione jazz degli anni Venti e Trenta a braccetto con la contemporanea avanguardia.
Due soli giorni, 13 e 15 dicembre, per incidere otto pezzi da sballo, sei celeberrimi standard e due composizioni di Benny Carter. Non è punk, è swing irrefrenabile e scatenato; i fiati sono quattro ma la potenza di fuoco è quella delle migliori big band in cui si è speso Benny.
Dalle sessioni del ’37 riemergono «Honeysuckle Rose» e «Crazy Rhythm», per dare fuoco alle ceneri. «Honeysuckle Rose» è uno dei grandi classici del jazz, l’hanno rifatta praticamente tutti, a partire da Louis Armostrong. «Crazy Rhythm» è straripante, energia allo stato puro, ed è una goduria cogliere le urle eccitate in sottofondo: come «Mannish Boy» di Muddy Waters, stessa eccitazione, stesse urla, stessa animalesca, travolgente passione.
A buttare benzina sul fuoco provvede «Cotton Tail»: anche qui si fila via a mille all’ora, tra swing e rhythm’n’blues; anche qui la melodia, come in «Honeysuckle Rose», è di quelle che stendono al tappeto sin dall’attacco.
Semplicemente devastante. Troppo devastante.
Per cui fra una sfuriata e l’altra, Benny e Coleman piazzano le ballate «The Midnight Sun Will Never Set», «Blue Star» e l’arcinota «Body And Soul»: qui lo swing è ancora più intenso, ma ora i ritmi sono rallentati, prende il sopravvento un suadente blues a mezza via tra romanticismo e malinconia, e la sola cosa sensata è abbracciare qualcuno che si potrebbe amare e ballare guancia a guancia, senza dire una parola, magari pure standosene immobili come Fonzie e la bella di turno nel locale di Alfred. «For the lonely hearts out there», avrebbe annunciato Joey, fosse stato della partita.
Poi, siccome ad ogni climax deve seguire l’anticlimax, chiudono il programma la bellissima «Cherry» e «Doozy», due tempi medi che concedono di tirare il fiato simpaticamente, fumarsi una sigaretta o bere qualcosa, riporre il vinile nella discoteca e, al contempo, con abile mossa, tirare fuori «Rocket To Russia».
Perché «Rocket To Russia» ascoltatelo sempre, perché è semplicemente il più grande disco rock’n’roll mai concepito; ma tenete sempre a mente che certi dischi jazz valgono «Rocket To Russia».
E checché ne dica Stinghi, che di jazz capisce nulla e di punk ancora meno, i russi i bambini non li amano, se li mangiano, per cui quel razzo missile prima o poi bisognerà spararlo.
One two three four!
Carico i commenti... con calma