Leadon. Bernie Leadon. Ho ammirato quest’uomo, da ragazzo. Mi appariva come quello più “giusto”, senza contraddizioni e controindicazioni, negli Eagles. Preparato, abile, sfaccettato, efficiente e brillante quando invece gli altri, pur tutti bravi e fascinosi, tradivano la loro ansia (Henley), bullismo (Frey), insicurezza (Meisner). La sua voce era solo normale, ma comunque solida e adeguata; molto di più trasmettevano le sue performance al mandolino, al banjo, al dobro, alla steel guitar, all’acustica e all’elettrica, capaci di fornire nutriente condimento e profondità a tutte le canzoni del gruppo, mantenendole in quell’area country rock meno universalmente commerciale ma certo più peculiare e in definitiva… simpatica e fresca.
E poi le canzoni del repertorio delle Aquile scritte dalla sua penna mi piacevano tremendamente: il rock blues “Witchy Woman”, la dondolante e molto acustica “Train Leaves Here This Morning”, la banjoistica “Earlybird” che dal vivo esplodeva in una virtuosa prestazione di nove minuti; e ancora la scattante “Twenty-one”, il desertico e supremo capolavoro “Bitter Creek”, la toccante ode a Graham Parsons “My Man” altro capolavoro… Persino la quieta e jazzistica “I Wish You Peace” mi convinceva, con quel suo grumo di accordi ricercati e sbilenchi.
Gli Eagles di quando c’era anche Leadon sono quelli giusti per inquadrare la band con tutti gli adeguati meriti. I dischi successivi senza di esso sono masticati, rissosi, vanitosi. L’atmosfera negli ultimi tre album diffonde una patina di negativo, di stracotto, di antipatico. Essendo relativi agli anni di enorme successo, essi sono responsabili della cattiva luce nella quale questo gruppo viene tenuto da una cospicua fetta di benpensanti italici appassionati di musica. Ma i primi quattro album con Leadon non erano così, suonavano vitali floridi e vivaci ed un’adeguata fetta del merito era la sua, visto che strumentalmente le cose interessanti le apportava lui, gli altri presi soprattutto a comporre (bene) e cantare (benissimo).
Tutta questa da me decantata maestria di Leadon, il suo eclettismo su tanti diversi strumenti, il suo spessore compositivo, non vengono ribaditi purtroppo in questo che è l’unico lavoro solista che egli sia riuscito a pubblicare (nel 2003). L’album è solo piacevole, non offrendo pagine che incidano ed aggiungano gloria all’uomo. Come prevedibile, sono tutte ballate elettroacustiche, più o meno ritmate, cogli strumenti che si tengono semplici, troppo!, senza impennate tematiche. Ed anche il cantato di Leadon non pare rotondo e accurato come lo era da giovane… c’è un qualcosa di sfocato, di modesto, come se oltre a capelli e baffoni l’artista abbia cogli anni perso anche la sua destrezza, la sua classe.
Non vi è nulla di sbagliato, c’è soltanto… ristrettezza di intenti, mediocrità, istinto da gregario che affiora. Ascoltando il disco varie volte, ovviamente, il cervello si adegua a quel che passa il convento e cominciano ad affiorare sensazioni di discreto intrattenimento, di piacevole compagnia, di adeguata resa. Ma non mi sento di segnalare nessuno dei nove episodi contenuti. Dare la sufficienza all’operato di uno delle Aquile (proprio colui che aveva trovato il nome alla band, per inciso), equivale ad esserne rimasti delusi, ma così è.
Carico i commenti... con calma