Recensione in cinque atti – o a cinque punte

I

Il 29 giugno 2008 (giorno del tredicesimo compleanno del sottoscritto), per celebrare il 40esimo anniversario dall’uscita del loro secondo LP, “Sweet Child”, i Pentangle si sono esibiti alla Royal Festival Hall, sulla riva sud del Tamigi. La venue, sede di diverse orchestre, tra le quali, su tutte, la London Philharmonic Orchestra, aveva già ospitato, negli anni, artisti del calibro di Brian Wilson (The Beach Boys), Frank Sinatra, Ray Charles, B.B. King, Patti Smith e John Cale (The Velvet Underground).
I Pentangle non erano nuovi a tale ambiente, e la scelta non risulta casuale, in una congiuntura felice come la reunion di uno dei progetti più eclettici della storia della musica di secondo Novecento. La band aveva esordito alla Royal Festival Hall nel maggio ’67, e il concerto aveva rappresentato un trampolino di lancio per una carriera ancora agli inizi. Tuttora esistente, il quintetto è formato, nell’incarnazione che fu, da due chitarre, una voce, una batteria e un contrabbasso. Ognuno di loro rappresenta la punta di una stessa stella: il “pentacolo” del nome.
I due chitarristi – rigorosamente acustici – nel 1967 si conoscono già da diverso tempo, e hanno pubblicato un album assieme giusto l’anno prima: un LP, di appena venticinque minuti, abbastanza breve considerato lo standard di durata del formato, firmato semplicemente “Bert and John”. In copertina, due ragazzi, poco più che ventenni, impegnati in un gioco da tavolo, illuminati dalla sola luce naturale esterna, che passa attraverso la finestra. Ciò che propongono è un folk dalle sfumature agresti, condito di spezie blues, fortemente magnetico e, spesso, ipnotico, nella sua cristallina semplicità. Sono Bert Jansch e John Renbourn.
Legati alla stessa etichetta discografica, la britannica Transatlantic, fondata dal business-man, produttore e talent-scout Nathan Joseph, i due hanno alle spalle, entrambi, “solo” il proprio album d’esordio (anche se Renbourn ha registrato e pubblicato un altro disco, in collaborazione con la cantante, e suonatrice di autoharp, Dorris Henderson, “There You Go”, su etichetta Big Beat). Entrambi virtuosi della chitarra acustica, sulla carta molto simili – ma uno dei due ha una marcia in più. Uno dei due sarà destinato a influenzare schiere di musicisti di generi tanto diversi da sconcertare, fuori dai “confini” del blues e del folk. Lo hanno citato, nel tempo, non solo Martin Carthy, Donovan, Neil Young, Nick Drake …, ma anche (e soprattutto!) Jimmy Page (Led Zeppelin), Pete Townsend (The Who), Johnny Marr (The Smiths), David Roback (Mazzy Star), e Kevin Shields (My Bloody Valentine). Si tratta di Bert Jansch.

II

Scozzese di Glasgow, ma adottato, de facto, dalla capitale Edimburgo, dove è cresciuto, Herbert Jansch (cognome di origine germanica) acquista la sua prima chitarra (una Hofner) in età adolescenziale, lavorando da vivaista; nello stesso periodo, frequenta il folk club The Howff, dove incontra Archie Fisher, cantautore che, diversi anni dopo, racconterà di quel periodo, e delle lezioni che dava alla giovane promessa “Ci sono volute due lezioni per insegnare a Bert tutto ciò che sapeva. Ne sarebbe bastata una, ma alla prima lezione siamo usciti a ubriacarci”. Appena diciassettenne, nell’agosto del 1960, Bert abbandona la serra per entrare definitivamente nel circuito live, e per comporre musica. I suoi punti di riferimento musicali sono Pete Seeger, Woody Guthrie, Big Bill Broonzy e Brownie McGhee. Diventa il custode non ufficiale dell’Howff, dove dorme, dopo esser andato via di casa. Per un periodo, si stabilisce in una casa abusiva con Robin Williamson, perno della Incredible String Band. Tra il ’60 e il ’62, fa il giro dei folk club del Regno Unito. Non ha con sé la sua Hofner, come si deduce da quanto egli stesso dirà allo scrittore Will Hodgkinson, nel 2010: “Ero uno zingaro, senza casa, o averi – nemmeno una chitarra. Me ne facevo prestare una a ogni concerto”.
Nel 1963, il passo decisivo: il 19enne scozzese approda a Londra, dove si stabilisce, al Bunjies Coffee House and Folk Cellar, insieme a Charles Pearce, uno studente d’arte. Fa amicizia con Jill Doyle, sorellastra di Davey Graham, il quale diventerà una delle sue più grandi influenze. Il già citato Martin Carthy, a proposito dell’arrivo di Bert nella capitale inglese, dove la scena folk-blues emergente sta facendosi sentire, dirà che “Quando venne qui, la sua reputazione l’aveva preceduto. Tutti parlavano di Bert come di un tizio che aveva suonato per pochi mesi imparando già tutto quello che i suoi insegnanti avrebbero potuto insegnargli”. Il secondo show a Londra di Jansch ha luogo al Troubadour, in gennaio, esattamente una settimana dopo che Bob Dylan ha suonato il suo primo e ultimo concerto nella stessa venue, il 29 dicembre 1962. I destini dei due artisti si incontrano quando Dylan deciderà di tornare nel Regno Unito, nel maggio ’64, per un giro nei folk club: è proprio a Bert che verrà affidato l’incarico di andare a prendere, insieme al produttore Bill Leader, il cantautore di Duluth, Minnesota, all’Hotel Savoy, e di fargli da accompagnatore. A tal proposito, Jansch: “Ricordo che siamo stati sbattuti fuori da un club perché facevamo troppo chiasso mentre qualcuno cantava … Lui era un tipo apposto, davvero simpatico”.
Ma torniamo a prima dell’incontro con Dylan, ergo al gennaio del ’63: in questo periodo, il giovane cantautore scozzese, di stanza a Londra, continua ad andare ramingo, uscendo dai confini nazionali, facendo il suonatore di strada un po’ in ogni dove. Prima di lasciare Glasgow, sposa la sedicenne Lynda Campbell: si tratta di un matrimonio di convenienza, che permette a Bert di portare con sé la ragazza, essendo questa troppo giovane per avere un passaporto. Si separano dopo pochi mesi, e, successivamente, Jansch viene rimpatriato in Gran Bretagna dopo aver contratto la dissenteria a Tangeri, in Marocco.

III

La sua reputazionealle stelle! – nel circuito londinese è tale da poter dire che egli ne rappresenta una sorta di “poster boy”, di emblema. Il fingerpicking, suo marchio di fabbrica, si scolpisce nella mente del pubblico, ma soprattutto dei suoi colleghi, che cercano di imitarlo. Bert Jansch non è più una promessa, ma le sue canzoni devono ancora pervenire in uno studio di registrazione, e l’artista confermarsi con un LP. Nel ’64, anno caldo, in cui Bert incontra sia il già citato produttore Bill Leader, sia Dylan, il primo lo invita, in agosto, a casa sua per incidere su un registratore a bobina aperta (reel-to-reel), vende la registrazione alla Transatlatic Records, per 100 sterline, e il risultato viene reso pubblico l’anno dopo, il 16 aprile.
Nell’aprile 1965, esordiscono discograficamente, nel Regno Unito, Graham Bond (con i suoi Organisation), gli Zombies e Marianne Faithfull. Nonostante l’indubbia qualità delle proposte, e soprattutto la portata innovativa, nel campo del blues revival, del “The Sound of ‘65” bond-iano, è Jansch a imporsi, e a rubare – abbastanza meritatamente – la scena. Come nel caso del connazionale Donovan, che esce per la prima volta sul mercato il mese dopo, Bert viene pubblicizzato come il “Bob Dylan britannico”. Se per Donovan il paragone, seppur superficiale, risulta quantomeno verosimile, nel caso di Jansch, invece, l’etichetta serve solo a fargli vendere più facilmente l’LP, in quanto il suo songwriting è sia palesemente, sia profondamente diverso, e il paragone fuorviante.
Negli Stati Uniti, d’altro canto, il 22 marzo, era uscito nei negozi il primo capitolo della Trilogia Elettrica dylaniana, “Bringing It All Back Home”, registrato mesi dopo (in gennaio) rispetto all’omonimo del cantautore scozzese. La credibilità di qualsiasi cosa fosse venuta dopo “Bringing It All Back Home”, nell’ambito del folk, era stata messa a rischio. Ma è plausibile che a Jansch non interessi il paragone, o la competizione. Il suo e quello di Dylan, molto più semplicemente, sono due mondi diversi nello stesso universo. Lo dimostra il fatto che il cantautore di Glasgow continuerà sempre sulla propria strada, proponendo soluzioni alchemiche, inerenti al folk, che lo rendono unico (il folk-jazz dei Pentangle), come unico è Dylan, nel suo peculiare genere.

IV

La prima creatura, sotto forma di LP, di Bert presenta principalmente materiale scritto di suo pugno, seppur non manchi qualche prestito, tra cui l’eccezionale resa di “Angie” (strumentale eseguito in fingerpicking all’acustica, composto e registrato nel 1961 dal già citato Davey Graham, che originariamente l’aveva concepito con il titolo di “Anji”), a chiudere il set di canzoni.
L’album, composto da 15 brevi composizioni, tra i suoi brani cardine ha l’apripista “Strolling Down the Highway”, “Rambling’s Gonna Be the Death of Me”, “Courting Blues” (una melodia che inizia come un semplice, dolce, monosillabo canticchiato, per poi svilupparsi per strofe), “Do You Hear Me Now?” (sofferta canzone di protesta, salita agli onori della cronaca di settore grazie alla versione di Donovan), lo strumentale “Alice’s Wonderland” (ispirato a Charles Mingus), ma soprattutto “Needle of Death”, un crudo e desolato lamento anti-droga, scritto dopo la morte per overdose di un amico dell’autore. Proprio a questo pezzo, anni dopo, Neil Young si ispirerà per la scrittura di “The Needle and the Damage Done”, sempre sul tema della droga.
Un album intenso, e dal suono pulito, che ha come unico protagonista un giovane chitarrista, non accompagnato da nessun altro strumentista, “Bert Jansch” è, a tutti gli effetti, un capolavoro di genere, una pietra miliare degli anni Sessanta, una delle testimonianze più sincere di quell’epoca.

V

Lodandone a profusione lo stile chitarristico, spesso e volentieri molti fan e addetti ai lavori hanno ignorato il lato compositivo, ma soprattutto la voce di Bert: calda, gentile, quasi mai aggressiva, un prototipo senza il quale un Nick Drake o un Elliott Smith non sarebbero esistiti. Lo stesso Neil Young, che si è espresso riguardo alle abilità di Jansch alla chitarra acustica, dicendo che non sono seconde a quelle di Jimi Hendrix all’elettrica, ha ribadito, con forza, più volte che, oltre a un già così straordinario dono, l’artista scozzese ne aveva un altro: al Mojo magazineÈ un grande chitarrista ed è di questo che tutti parlano, ma nessuno riesce realmente a capire l’altro aspetto, cioè le sue canzoni e la sua voce”.
La discografia di Jansch è straordinariamente variegata, e la sua vena creativa si è estinta solo con la sua morte, avvenuta il 5 ottobre 2011, per tumore ai polmoni. Negli anni con la Transatlantic (1965–1972), quantità e qualità sono andate di pari passo: sei album da solista, uno “collaborativo”, e altri sei come membro dei Pentangle. Ne avrebbe pubblicati diversi altri dopo il ’72 (mentre viveva vittima dell’alcolismo), ma il periodo con la Transatlantic si distingue nettamente, per originalità e per la presenza di tanti (troppi, e vivaddio se è un bene!) classici.
Bert Jansch è stato, a suo modo, una rockstar, e lo è stato senza aver mai il bisogno di collegare una chitarra elettrica a un amplificatore. Uno dei massimi guitar hero, Jimmy Page, ha ricordato di essere stato “assolutamente ossessionato da Bert Jansch … era avanti anni luce rispetto a qualsiasi altra cosa stesse facendo chiunque altro. Nessuno in America poteva arrivare ai suoi livelli”. Lo stesso Page ha rubato il riff di “Black Waterside” per incidere la più celebre “Black Mountain Side”, tratta dal leggendario primo album, omonimo, dei Led Zeppelin.
Un’ulteriore curiosità, di non poco interesse, riguardo Jansch, ha a che fare, di nuovo, con Donovan: questi – che, in precedenza, gli ha già dedicato due canzoni, “Bert’s Blues” e “House of Jansch” –, nel 1968, in viaggio a Rishikesh, insegna ai Beatles le tecniche di fingerpicking perfezionate ascoltando i primi album di Bert; questo porterà alla realizzazione di due classici immortali dei Fab Four, “Blackbird” e “Julia”. Su di lui, uomo di poche parole, uno dei suoi più grandi estimatori, Johnny Marr, ha detto “Ricordo di aver chiesto a Bert ‘Quando facevi le tue cose, sapevi di essere, a tuo modo … heavy? Più heavy di tutte quelle band che si dichiaravano heavy?’ Lui fece questo cenno del capo, molto lento, annuendo, e mi passò un biscotto – come a dire ‘Sì, e sono troppo heavy anche solo per parlarne’”.

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