In un sito "caleidoscopico" come questo (dove sciamano appassionati di musica di ogni tipo) stupisce constatare la penuria di recensioni riguardo la produzione discografica di un certo Bert Jansch. Rude e generoso scozzese, virtuoso della chitarra acustica, accorato e sensibile cantautore, ma sopratutto artista del corpo e dell'anima nei suoi momenti più ispirati. Pilastro, con Davy Graham ed Anne Briggs (penso che imasoulman confermerà questa mia affermazione), del "revival folk" nella terra d'Albione nella seconda metà degli anni '60. Un revival che non fu pedissequo disseppellimento celebrativo, ma contaminazione tra culture musicali lontane. Le "musiche della tradizione" di Inghilterra, Stati Uniti e (perchè no) India si incontrano, dando vita a qualcosa di nuovo. Senza Jansch (cioè senza il suo stile chitarristico e la sua ricerca appassionata) sono inconcepibili discepoli palesi d'ambito più cantautorale come Nick Drake, Roy Harper e John Martyn, tutto quel sottobosco psycho-folk che ha nei Comus la sua scintilla più pazza e persino quegli smargiassi saccheggiatori della tradizione (o meglio, di coloro che provavano a rinnovarla) dei Led Zeppelin.

Ora passiamo ai fatti attinenti a questa recensione. Jansch comincia da solista con un lavoro omonimo (1965) che si è avari a definire epocale. Nulla più di una voce e di una chitarra che si esprimono in un densissimo concentrato di strumentali che, appunto, rinnovano la tradizione grazie al "tocco" unico dello scozzese e di canzoni che sanno essere esili come piume, ma che all'occorrenza si trasformano in giavellotti in grado di trafiggere una quercia (ah "Needle of Death"... ah "I Have no Time"...). Il percorso prosegue impetuoso nella sua coerenza e nella sua ispirazione fino a "Nicola" (1967). In Jansch la chitarra è prolungamento del corpo e quindi dell'anima (signori miei, vi giuro che non è una frase fatta!). Ordunque, affogare (in alcune canzoni) quel connubio essenziale e perfetto di voce e chitarra in un eccesso di fiati ed archi significa oscurare l'essenza dell'artista. Insomma, "Nicola" subisce un destino analogo a "Bryter Lyter": disco per nulla privo di ispirazione, ma che "suona" poco personale. Gli succede "Birthday Blues", oggetto della mia recensione. Viene pubblicato nel 1969, con uno Jansch che nel frattempo ha fondato con il suo "alter ego chitarristico", John Rebourn, i Pentangle. Forse questo passaggio è decisivo nel ritrovamento di un equilibrio che rischiava di perdersi nella sua carriera solista. Non è più solo un disco chitarra e voce come i primissimi, la strumentazione è un pò più ampia ed è prettamente finalizzata a dare più sfumature di suoni e di "colori" ai pezzi.

Non farò come in altre miei recensioni (risalenti invero a parecchi anni fa): non illustrerò il disco con un traccia-dopo traccia didascalico. Questo è un disco che non merita pedanteria, in quanto l'ispirazione e l'intensità sono vividissime in ogni dove. Nei blues ciondolanti di "Promised Land" e "I've Got a Woman", con l'armonica e/o il sassofono a marcare il territorio (come non immaginare, dall'altra parte dell'oceano, un Townes Van Zandt che prende appunti...). Nella serenata imbevuta di raga che fa a nome di "A Woman Like You" (che entrerà anche nel repertorio dei Pentangle... come ho detto all'inizio Jansch, dietro alla rudezza caratteriale legata al vizio alcolico, era un generoso...). In "I am Lonely" e "Tree Song", con quel flauto esotico che spalanca paesaggi fiabeschi ed ingentilisce profonde malinconie. Nella sospesa "Wishing Well", scritta insieme alla Briggs, che (a mio giudizio) fa impallidire un Donovan e che preannuncia molto della produzione di Roy Harper negli anni a venire. Nell'eponimo stringatissimo brano strumentale, acquerello pastorale e psichedelico al contempo. In "Poison" (la meno "folk" e la più "rock" del lotto), con l'insieme di voce e strumenti che incede in maniera così stentorea ed ipnotica da scuoterti dentro come uno stuoino impolverato. Infine, come non citare "Bright New Year", cantilenante, struggente e brevissima dedica alla propria madre.

Jansch proseguirà per alcuni anni con i Pentangle (fino allo scioglimento del 1973), i quali daranno vita a sostanziosissimi dischi che sono strutturati, invero, più come suite (dove si mescolano fluidamente folk, jazz, blues, psichedelia e accenni di raga) che come sequenze di mere canzoni. Da solista per tutti gli anni '70 continuerà a pubblicare lavori di classe, ma che suonano alle mie orecchie un pò "manierati". In quanto in essi manca quella magia in grado di trasformare uno spillo in un'arma in grado di trafiggere una quercia. Un attimo, ma non avevo detto giavellotto...

...oh, cara musica la tua assenza è stata assai gravosa... sarà meglio forse che non ti abbandoni più...

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