Recensione Zot:

Hai presente quando fai pensieri impuri ed il tuo membro si gonfia e s’indurisce per la visualizzazione estatica dell’immaginario sessuale? Ecco quest’album fa lo stesso effetto.

Recensione notturno/mattutina:

Nel mio lavoro (allenatore di pallacanestro) è normale porsi obiettivi e, conseguentemente, visualizzarli e mettersi nell’ottica di raggiungerli con impegno. Nel mezzo vi é la stagione agonistica.

Per i giovani, per i ragazzi, lo scopo da perseguire è principalmente il miglioramento individuale e il “saper fare” all’interno di un collettivo (la squadra).

A livello senior, conta la vittoria e per raggiungerla sognar non basta, bisogna avere una grande consapevolezza, il senso del reale, è necessario migliorare, anche individualmente, ma specialmente come amalgama, come gioco e, oggidì, molto più spesso come persone nella disponibilità ad essere solidali e mutuali.

Questa sera si è infranto il “sogno” di poter raggiungere una delle mete stagionali per uno dei miei gruppi senior e siccome sono tendente al furioso mi faccio accompagnare dal concept album “Automata I” (nell’attesa di “Automata II”, previsto per luglio) e aiuto la mia frustrazione a scorrer via scrivendone, a mano molto libera.

Anche i “Between the Buried and Me” pensano che il sogno sia talmente interessante da realizzarci un album, un’opera in cui la fantasia visionaria umana viene visualizzata e utilizzata in un futuro mediatico da compagnie televisive, mettendola a disposizione di altre persone in broadcast. Un chimerico “The Truman Show”, sbattendosene in toto del “sognatore”.

Ho conosciuto il gruppo del Nord Carolina nel 2005 grazie ad “Alaska” ed in questo ultimo lavoro c’è un condensato musicale di “Alaska”, “The Great Misdirect” (2009) ed il penultimo “Coma Ecliptic” (2015).

E’ un capolavoro per il genere? Non lo so ancora, perché sarà necessario attendere l’“opera fratella” (la prima dura 35’ e quando finisce ne chiedi visceralmente “ancora un po’, ne voglio ancora!”), ma i presupposti ci sono tutti.

L’opener “Condamned to the Gallows” si apre su un arpeggio della chitarra di Paul Waggoner, per poi sfociare in un interscambio tra frecciate elettriche e iniezioni di elettronica. Tommy Rogers, come sempre, sfoggia un incredibile talento passando da voce pulita a growl come se niente fosse. Uno dei pochi canti gutturali che riesco a gestire uditivamente è il suo. E’ comprensibile e varia le dinamiche in maniera pressoché unica. Ho percepito anche certe idee dei “System of a Down” nella parte melodica conclusiva.

“House Organ” parte carica a balestra con un fresco e potente Blake Richardson alla batteria, un vero e proprio mostro sacro del drumming, stacco di tromba (Jonathan Wiseman) e trombone (Cameron MacManus) distorti, poi la voce clean di Rogers anticipa un fluido connubio elettrico-elettronico.

Due membri risaltano in maniera epica in “Yellow Eyes”. Il cantato e le futuristiche tastiere di Rogers confessano mera violenza e perizia tecnica, risulta un po’ come vedere una tigre malese ruggire con il tutù, mentre realizza passi da dressage, mentre nella seconda parte del brano il valente Richardson viene completato in maniera sublime dall’abilità di Dan Briggs. Veramente un bassista che non ha nulla da invidiare a nessuno. Potente, dinamico, tecnico, dipinge frasi melodicamente disinvolte in Sib min con gusto ineccepibile, prima di aprirsi a quintine con sfumature jazz e funky. Il finale “powerchordato” di Dustie Waring, accompagna il solo di Waggoner per terminare con un sinfonico raddoppio tematico conclusivo.

La traccia che più mi ha sorpreso è “Millions” che ha mille nuances armoniche, melodiche e ritmiche, mantenendo sempre una certa serenità, esplorando anche il registro basso in voce pulita, quasi un “non pezzo” dei BTBAM, anche per durata del brano, ma che suona esattamente come dovrebbe suonare un brano indie coverizzato da Rogers & Company. “Millions fly overhead”!

“Gold Distance” introduce la closing track, la più lunga dell’album: “Blot”. E’ la più lunga, ma ne vorresti di più, un po’ il leit motiv dell’album ed è fondamentalmente l’unico difetto che trovo al brano. E’ un riassunto di tutta l’esperienza ed il talento musicale della band di Greensboro. Non sto a descrivervela sotto il profilo musicale, per non tediare, forse l’ho già fatto. Ascoltatela, chiudete gli occhi, fatevi rapire da “the Blot in my eyes”, poi risvegliatevi di colpo, spalancate e sbarrate gli occhi e cominciate a sbattere fortissimo la testa contro il muro, perché questo brano fa letteralmente andar fuori di testa.

Il sogno talvolta può illudere, rende l’aspettativa troppo alta, rischiando di mortificare la realtà, ma in questo caso “Automata I” è una utopica realtà. Esiste. Per davvero. E cazzo, godetene.

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