Uno dei capolavori degli anni 80.
L’opera che consacro’ Steve Albini tra i massimi esponenti della scena rock underground americana. Dopo aver aggiustato la mira con tutta una serie di E.P. pubblicati negli anni precedenti, il nerd di Chicago colpisce il bersaglio nel 1986, dando alla luce questo disco fondamentale, manna dal cielo per svariati filoni musicali degli anni seguenti, dal noise all’industrial fino al math-rock (di cui lo stesso Albini, non a caso, diventera’ superbo esponente con il memorabile “At Action Park” degli Shellac, sua terza formazione). Licenziato l’amico bassista Jeff Pezzati, vocalist dei concittadini Naked Raygun, acquistato al suo posto Dave Riley, e confermato invece il fido chitarrista Santiago Durango, Albini espone la sua particolare interpretazione dell’hardcore: l’hardcore di Albini e’ cacofonico (ecco il noise), meccanico (per effetto dell’ utilizzo di una delle drum-machine piu’ bastarde del decennio, e i Ministry ringraziano…), geometrico (ecco i germi del math…).
L’effetto complessivo e’ estremamente cupo, ossessivo, sgradevole, disumano, barbaro, oltranzista, concitato, agghiacciante, shockante. Basterebbe il trittico centrale a mandare il disco in gloria: “Kerosene”, “Bad Houses” e “Stinking Drunk” colpiscono al fegato. La prima (probabilmente la vetta dell’intera produzione albiniana) potrebbe fare da colonna sonora a 'Taxi Driver': pare di vedere Travis Bickle bazzicare, annoiato, con le mani in tasca e lo sguardo minaccioso, per le vie della metropoli (“Never anything to do in this town…”), prima del bagno di sangue. Albini fa letteralmente a pezzi il riff di chitarra e lo ricompone disordinatamente, cosi’ che a fare da motore al brano e’ una sorta di riff-zombie, in procinto di deragliare nello stridore lancinante del ritornello (“Set me on fire…”) e di sfociare infine nel caos piu’ assordante. La voce di Albini e’ passiva, sofferente, debole, ma talora capace di improvvisi sfoghi. “Bad Houses” e’ invece il brano piu’ “disteso” del disco, un pezzo molto adatto per certe giornate grigie, uggiose, desolate: qui, il wall of sound si connota sorprendentemente di sfumature malinconiche che si coagulano in una sublime, mesta e scorata poesia del quotidiano.
Dopo questa toccante ricognizione sullo spleen giovanile, si ritorna nel mondo dei serial killer, con uno dei brani piu’ angosciosi e terrorizzanti della storia del rock, “Stinking Drunk”. L’attacco e’ da manuale: la drum-machine allestisce un ritmo serrato; entra un vertiginoso giro di basso; poi la chitarra di Albini, stridula e deforme; infine i torvi accordi in crescendo di Durango (uniti ad un canto disarmante) nutrono il brano di una tensione spasmodica, prima che questa si sciolga in una pozzanghera di accordi liquefatti. Poi, a meta’, lo show della chitarra di Steve, che ricompone “in tempo reale” il riff di partenza, prima di far ripartire l’assalto finale (“Go! Get Drunk!”). Gli altri brani non sono certo da meno: “Jordan, Minnesota” non da’ respiro col suo crudele schema a stop’n’go; “Passing Complexion” fa’ leva sull’ effetto chitarristico piu’ perverso che si poteva concepire e strutturalmente appare piu’ vicino al mondo della techno che a quello del rock; “Bazooka Joe” e’ una raffica di cannonate che procede per inerzia, con un intermezzo centrale da capogiro.
Sono tutti brani che dimostrano come la musica di Albini si basi sullo sfruttamento geniale e innovativo di pattern stilistici presi in prestito dal rock piu’ classico, per poi essere sottoposti ad un sadico processo di mutazione genetica: Albini e’ il chirurgo pazzo della musica rock. A chiudere in bellezza, arriva “Cables”, brano molto meno opprimente dei precedenti, capace di anticipare, in qualche misura, quello che Steve avrebbe fatto un paio d’ anni dopo coi Rapeman.
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