Una notte così vuota può solo essere indolore.

Stuart Adamson morì suicida in una stanza d’albergo di Honolulu. Morì in solitudine, senza il clamore della rockstar, abbandonato prima alla depressione e poi ad una corda. L'alcol aveva purtroppo già da tempo consumato ogni resistenza. Ma se mi appresto a scrivere queste poche righe è perchè credo ci abbia lasciato un testamento da ricordare.

Potresti sopportare il mio dolore e amarlo. Ma tu non saprai mai come vivo.

Ho iniziato ad ascoltare i Big Country ancora ragazzino. Ero l'unico nella mia cerchia di amicizie ad essere stato rapito da quei loro magici intrecci di chitarra che suonavano come cornamuse e profumavano di Scozia. Il mio battesimo fu proprio questo “Peace in our time”, disco bistrattato dalla critica ma anche da molti fan del gruppo, che mal digerirono questa svolta (pseudo) commerciale e il sound più patinato. Io, tanto per cambiare, sono la voce fuori dal coro. Qui ci trovo una varietà di stili che non era presente nei precedenti lavori. Gli stessi “esperti” di settore lamentavano che il sound così particolare e riconoscibile del gruppo ne rappresentasse croce e delizia. Beh, arrivò la smentita. E ad ogni modo per me in questo disco ci sta anche tanta sostanza, semplicemente per il fatto che il sottoscritto non ha mai skippato una traccia, cosa che mi succede spesso con gli album più incostanti.

I ricordi esagerano sempre. E nulla è più falso e vero allo stesso tempo.

Ci sono quei dischi che ami profondamente e non sai spiegarne realmente il motivo. All'epoca si può dire che fosse un suono nuovo per le mie orecchie, oggi probabilmente ci sento ancora il profumo della mia adolescenza. La musica d'altronde è legata più all'istinto che alla ragione. Scandisce il nostro tempo, accompagna giorno dopo giorno le nostre emozioni e cristallizza gli avvenimenti della nostra vita. E quindi anche se in fondo sentiamo tutti questa necessità di raccontare qualcosa di noi stessi e dei nostri ascolti, la verità è che restiamo soli con le nostre vite e la nostra musica. Come una seconda pelle con cui condividere il sudore e le cicatrici.

È il fiume della speranza, è il fiume che abbiamo perso per anni.

I Big Country hanno sempre accompagnato al loro “bagpipe rock” delle liriche che riuscivano a coniugare poesia e impegno sociale, cercando di mettere a nudo i problemi e le divisioni del Regno Unito, dalla crisi delle periferie e la disoccupazione dilagante, al miraggio delle Steeltown e i residui di colonialismo delle Falkland. Tematiche importanti che li accomunavano ai primi U2 e agli Alarm, il famoso terzetto celtico, e che diventano un valore aggiunto non indifferente alla proposta musicale del gruppo. E anche se il destino decise di premiare gli irlandesi da un punto di vista discografico, posso affermare senza remore che i Big Country non mostravano il fianco da un punto di vista artistico e strumentale.

Quel negozio non avrà la mia anima, ma certamente si prenderà la mia moneta.

In quegli anni poi non c'erano i mezzi di oggi per approfondire in tempo reale la musica dei gruppi che ci interessavano. Acquistare una cassetta originale era un vero e proprio atto di fede. Se ti andava bene conoscevi 2 o 3 canzoni su 10. Avevi comunque il 70% di possibilità di aver sprecato quelle 20.000 lire(o giù di lì), che non erano poco per una famiglia che non nuotava esattamente nel denaro. Ma Fede decise per quell'atto. Decise di fidarsi dei due singoli che giravano per le radio e tv dell'epoca: la più energica e rockettara “King of Emotion” e la malinconia velata di folk di “Broken Heart (Thirteen Valleys)”. La fiducia fu ben riposta se oggi, come trent'anni fa, continuo ad innamorarmi di questi suoni. Schiacciati dalla forza dei cromosomi, cerchiamo ogni giorno di recuperare quell'aria che avvolgeva tutto rendendolo misteriosamente magico. “Peace in our time” è parte di quella magia.

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