Non si può certo negare che per un breve ed intenso periodo i Big Country, almeno in Europa, abbiano rappresentato una proposta musicale originale ed interessante. Lontani dai clamori suscitati in quei primi anni Ottanta dagli U2 e assolutamente più credibili ed abili di gruppi come i Simple Minds e gli Alarm, la band guidata dal talentuoso Stuart Adamson, ha avuto il merito di proporre un personale progetto musicale che consisteva nell'unire temi ispirati alla musica popolare scozzese ad un contesto sonoro puramente post-punk.
I Big Country erano particolarmente abili nel creare decise sonorità rock, miscelandole con i suoni delle cornamuse, dei flauti e dei violini scozzesi, riprodotti direttamente con le loro chitarre elettriche. Con questo particolare stile sono riusciti a creare un sound estremamente originale che diventerà, col passare del tempo, il loro marchio di fabbrica ma anche un limite invalicabile delle loro scelte stilistiche. Scelte che sono sempre state ben radicate a livello politico ed espresse nei testi delle canzoni, spesso rivolti a scottanti temi sociali riguardanti la politica di Margaret Thatcher o la ferita generata dal conflitto delle Falkland.
"Steeltown" esce nel 1984, preceduto da un singolo di successo, la trascinante "Wonderland", un pezzo suggestivo che non troverà però posto sull'album. "Steeltown" mantiene tutte le promesse già espresse dal notevole esordio dell'anno prima, quel "The Crossing" che tanta fortuna aveva portato al gruppo di Adamson. La produzione attenta e professionale di Steve Lillywhite mette in risalto l'arte della band in un'opera impegnata ed ispirata che, a distanza di più di vent'anni, suona ancora fresca e godibilissima. In questo disco non mancano infatti alcuni tra i migliori pezzi usciti dalla Gran Bretagna in quel periodo. L'inizio roboante e già pieno di intenti di "Flame On The West", il racconto dolente di "East Of Eden", la dolcezza melodica di "Girl With Grey Eyes", la supplica di "Come Back To Me" e la cavalcata di "Tall Ships Go" sono episodi che non si possono ignorare e danno peso al lavoro. La bellezza dell'album risiede però nella potente critica politica dell'inno scatenato "Where The Rose Is Sown", un classico dei loro concerti e nell'incantevole "Just A Shadow" con la sua lunga coda chitarristica.
All'epoca della sua uscita "Steeltown" ottenne un gran successo sia di pubblico, raggiungendo le vette delle classifiche inglesi, sia di critica. Il gruppo festeggiò perfino il nuovo trionfo discografico con una serie di spettacoli alla Wembley Arena ai quali fu invitato come ospite Elton John. Purtroppo, nonostante la passione e la stima dimostrata da una schiera di fedelissimi sostenitori, quest'opera rimarrà il punto più alto della loro produzione. Negli anni successivi a "Steeltown", i Big Country pubblicheranno dischi assolutamente discreti, ben fatti e piacevoli ma lontani dai fasti dei primi gloriosi periodi. Una vicenda la loro che si concluderà tragicamente nel dicembre del 2001 con il suicidio di Stuart Adamson. Un suicidio che metterà la parola fine ad una vicenda musicale che ha cercato di essere epica e che sembrava impossibile solo immaginare quando Stuart Adamson si chiedeva "Who Knows Where All Our Days Gone" mentre cantava "East Of Eaden". Appunto, ci chiediamo, dove sono finiti quei giorni?
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